La mia filosofia è imperniata sulla consapevolezza che non si debba affatto tentare di ridurre ad una fantomatica unicità dell’essere quel molteplice che caratterizza l’esistenza, ma, al contrario, santificare la duplicità umana ed insieme ad essa quella stessa molteplicità della quale l’uomo è a un tempo fondamento e testimonianza. Quella unicità, che con tanta fatica i filosofi rincorrono da millenni, coincide invece con l’ineludibilità dell’esistenza, che nell’alterità del Pensiero massimamente si manifesta, ovvero in quell’alterità rappresentata dall’uomo, che dell’esistenza è l’unico ente sempre interprete e mai spettatore. Ecco, dunque, che quella unicità esistenziale, trovando la propria giustificazione attraverso la dualità soggetto-oggetto, di cui l’uomo è assoluto protagonista, si afferma inesorabilmente come duplicità. D’altra parte, ogni concetto – compreso quello di un essere immutabile, immobile ed indeterminabile – presuppone il Pensiero, ed il pensare si caratterizza per due fondamenti: quello di implicare un rapporto, una duplicità, e quello di appartenere all’uomo in quanto tale. L’unico elemento tuttavia che l’uomo non può concettualizzare è proprio l’esistenza nel suo puro e semplice esserci. L’esistenza, infatti, è il semplice fatto che essa esista, e proprio in virtù di ciò all’esistenza non si può opporre qualcosa che non la contempli, ovvero la “non esistenza”, così come si fa invece quando al concetto di “essere” si oppone quello di “non essere”. Essere e non essere, proprio in quanto “concetti”, sono entrambi relativi e non assoluti; essi rappresentano semplici attributi che noi diamo alle cose. Quando, ad esempio, diciamo: “Quell’albero è se stesso, ma non è quell’altro albero”, noi determiniamo che esso “è” e “non è” sempre in relazione a qualcos’altro. Ma quell’albero, in quanto mera esistenza, è assolutamente e semplicemente ciò che è nel suo semplice esistere. E così per l’esistenza in quanto tale.
Mi si potrebbe obiettare che io non abbia fatto altro che sostituire il termine “essere” con quello di “esistenza”, passando così solo terminologicamente da una unicità ad un’altra. Non è così, perché per “esistenza” io non intendo (e non si può intendere) un qualcosa di metafisico, ma il semplice e puro esistere, quello che Sartre chiama “l’in sé”, poeticamente evocato dal filosofo nel suo romanzo “La Nausea”. E non a caso evocato con l’arma della Poesia.
L’aver voluto estendere i concetti di “essere” e “non essere” all’esistenza stessa, ha portato alla più grande delle assurdità: quella dell’esistenza del “nulla”. Il concetto di “non essere”, infatti, è stato opposto non solo al concetto di “essere”, ma al puro esistere, arrivando così all’idea che possa esistere ciò che non esiste. E questa assurdità si è così profondamente insinuata nelle teste dei filosofi, e degli uomini in generale, da non accorgersi che essa si palesa come tale già nel suo essere semplicemente enunciata: “Esiste la non esistenza”. Sia dunque subito chiaro che io non nego la validità dei concetti di “essere” e “non essere”, rappresentando essi i due elementi fondamentali con cui l’uomo discerne il reale, ovvero il molteplice, nego invece categoricamente il loro venire assolutizzati, il loro essere visti, appunto, non come concetti (strumenti per la conoscenza, o “modi di esistenza”, come amo dire io) ma come struttura dell’esistenza stessa. E come è vero che “essere” e “non essere” sono solo due concetti – o “modi d’esistenza” – è altrettanto vero che essi, come l’atto del conoscere in quanto tale, non possono essere usati per conoscere (determinare) l’esistenza. L’esistere, infatti, si vive, non si conosce. Lo stesso atto del conoscere è esistenza. L’esistenza è l’unica cosa assoluta che abbiamo di fronte ed in noi stessi. L’esistenza è, dunque, l’unico “inconoscibile”, e questo non perché noi uomini non saremmo in grado di conoscerla, ma perché essa non può rappresentare un oggetto di conoscenza: l’esistenza semplicemente è. L’esistenza è la soggettività assoluta, quella assolutezza che assume forma di consapevolezza nel pensare e nell’agire dell’uomo, dalla cui rappresentazione dell’esistenza stessa nasce l’oggettività, ovvero il mondo. Non è vero, dunque, che senza l’uomo non esisterebbe la soggettività; senza l’uomo al contrario non esisterebbe l’oggettività.
È talmente vera l’ineludibilità dell’esistenza che i suoi inconsapevoli detrattori la attribuiscono finanche a quel suo opposto, della cui scoperta vanno tanto fieri: il “nulla”. Essi infatti bellamente affermano: – “Esiste il nulla”.
E tutto ciò, assurdità comprese, accade nell’uomo, ovvero nell’altra veste in cui l’assolutezza dell’esistenza si palesa: il Pensiero.
È nell’uomo, dunque, proprio nel suo essere duplice, che si cela la funzione ontologica, il segreto dell’esistenza, e non in una “essenza” che sia oltre l’uomo. Non è fuori dall’uomo che la Filosofia deve cercare, ma nell’uomo stesso.
La mia filosofia, proprio perché pone l’uomo al centro dell’esistenza, come essere per eccellenza, non va affatto intesa come antitetica rispetto al sentire cristiano ma come interpretazione più realistica del Vangelo. L’essere umano, infatti, come spiego ampiamente nella mia prima opera, L’uomo e la sua ombra, rappresenta, nella catena evolutiva dell’universo, un salto quantico, ovvero il massimo atto della Creazione, l’essere nell’essere, l’atto che ha sancito quello scarto esistenziale all’interno della nuda Natura, il modo con cui Dio ha dato via al Mondo nella sua forma più autentica, relegandone ogni realtà fisica a mera rappresentazione.
La Filosofia, dunque, non va interpretata come scienza dell’essere (ontologia), ma come indagine sull’esistenza. E siccome, dell’esistenza, l’uomo è la massima espressione, la Filosofia è ricerca dell’uomo (esistenzialismo).
I quattro cardini della filosofia
1) Esistenzialismo e Libertà – Partendo dalla tautologica identità tra essere ed esistenza, che tanto somiglia a quella ineludibile quanto inesplicabile correlazione che c’è tra l’impianto della geometria euclidea ed il suo “V Postulato”; tenendo conto che, dell’essere, l’uomo rappresenta l’autocoscienza – il Pensiero – ovvero l’essere che si coglie appunto come mera esistenza; e fermo restando, infine, che, in virtù di questa sua funzione ontologica, l’uomo è l’essere (l’esistenza) che si è innalzato all’assoluta libertà di agire e di progettare il mondo, risulta evidente allora che ogni filosofia autentica non può che presentarsi come esistenzialista e libertaria, nel senso che deve unicamente e costantemente accompagnare l’uomo nel suo cammino esistenziale, liberando al contempo la sua strada da tutti quei perversi elementi sociali, politici ed economici che in qualche modo possono intrappolarlo in un determinismo che segnerebbe inesorabilmente la sua fine.
In quanto perenne ricerca intorno all’uomo ed al suo agire – i veri elementi metafisici che devono essere al centro di ogni filosofare -, oggi, più che nelle epoche passate, la filosofia deve abbandonare quell’eremitaggio in cui solitamente ama chiudersi alla ricerca di nuove metafisiche, una sua atavica inclinazione elevatasi a regola negli ultimi tempi. Da troppi anni ormai la filosofia si è abituata a fungere da trastullo degli intellettuali nei salotti accademici, al punto che la sua voce rappresenta solo un artefatto canto di sirena capace di ammaliare solo quelli che navigano nelle basse acque delle università. La filosofia ha perso fascino e autorità. Non seduce e non spaventa: è una belva ammaestrata. Parla una lingua tanto complicata da costringerci a decodificarla, quando dovrebbe essere lei, al contrario, a fornirci le chiavi interpretative della società. La filosofia ha totalmente perso il coraggio di entrare nel brutale mondo della quotidianità. È diventata tremendamente sedentaria proprio quando avrebbe dovuto presentarsi straordinariamente attiva; è andata in letargo nel periodo in cui avrebbe dovuto soffrire di insonnia. Oggi, più che mai, la Filosofia deve usare il martello, risuonando nelle orecchie degli uomini sin dalla loro infanzia. La Filosofia deve diventare infatti materia fondamentale sin dai primi anni scolastici e caratterizzarsi come un lavoro comunitario ed associativo, assecondando e disciplinando quel processo di globalizzazione che sempre più caratterizza la vita sociale dell’uomo contemporaneo. In una società che vive quella globalizzazione in maniera del tutto passiva, l’uomo corre il rischio di essere sempre più schiavo di un finto individualismo che, in realtà, corrisponde ad un omologante modello sovraindividuale – un pericoloso ossimoro, questo, che se non opportunamente svelato ed interpretato può portare persino all’estinzione dell’individualità umana, ovvero alla fine dell’uomo stesso, non potendo egli non coincidere che con la propria Libertà d’espressione e la propria Creatività (cioè con la sua natura individuale) -. Ecco, dunque, la necessità di una Filosofia che assuma il ruolo di una perenne riflessione dell’uomo su se stesso, che, anzi, coincida con il suo pensare. Essa deve configurarsi come baluardo dell’individuo e del suo agire, ovvero come Esistenzialismo e Libertà. Mai come oggi è necessario che la Filosofia si innalzi al ruolo di massima espressione del Pensiero. Mai come oggi la Filosofia deve coincidere con la vita umana. Mai come oggi l’uomo deve stare accanto a se stesso, come fosse la propria ombra.
2) Il Pensiero – E che cos’è il Pensiero, questa peculiarità dell’essere in cui l’uomo si identifica totalmente, al punto che, parafrasando Hegel, potremmo spingerci a sentenziare: “Tutto ciò che è umano è pensiero e tutto ciò che è pensiero è umano”?!
Il Pensiero non è (questa volta contraddicendo Hegel) l’essere che prende coscienza di sé nell’atto di riprodurre deterministicamente se stesso in un mondo oggettivo, una oggettivazione rispetto alla quale esso consisterebbe solo nel riconoscimento della sua intrinseca ed inviolabile legge di svolgimento; il Pensiero è, al contrario, l’atto della Creazione, rappresenta l’uomo nel suo autodeterminarsi secondo una libertà assoluta, che ha come unico vincolo le Leggi della Natura. Nell’atto di pensare, l’uomo progetta il mondo similmente ad un bambino che, giocando con dei mattoncini, crea a proprio piacimento svariate costruzioni, avendo come limite alla propria fantasia solo quei tasselli stessi e i principi fisici con cui essi possono essere assemblati. Il Pensiero, proprio come la mera esistenza, è un soggetto assoluto, è l’altra faccia dell’esistenza stessa. Alla stregua dell’in-sé, il “per-sé” è indeterminabile e non oggettivabile. Esistenza e Pensiero sono i due poli irriducibili ed inconciliabili di una struttura unica, la cui unicità sta proprio nella sua “duplicità”. Il Pensiero, come l’esistenza, non può ricadere su se stesso, non è pensabile. Il Pensiero non si può pensare. Quando si pensa al pensiero, quello che si è pensato non è il Pensiero, ma una sua oggettivazione, una sua concettualizzazione. Bisogna rassegnarsi a questo, non con rammarico, ma con quel laico spirito di presa di coscienza delle cose.
Il Pensiero, dunque, non è conoscenza dell’essere, poiché pretendere di conoscere l’esistenza (trovare per essa un segno) non ha alcun senso, essendo l’esistenza ciò che precede, parafrasando Sartre, ogni essenza. L’essere, ovvero l’esistenza in quanto tale, non può essere in alcun modo determinato (conosciuto); e questo non perché, come dice distrattamente Kant, non abbiamo gli strumenti per farlo, ma perché rappresenta un ossimoro voler conoscere l’esistenza. Il massimo che si potrebbe concedere ai metafisici è che il Pensiero sia autocoscienza dell’essere, ma, in questo caso, ci si chiuderebbe in un circolo dialettico assolutamente sterile, improduttivo ed inutile alla stregua dell’idealismo hegeliano. Come dice giustamente Schopenhauer, la filosofia di Hegel non rappresenta altro che la prova ontologica estesa ad una intera filosofia. Quell’essere, inteso come essenza del mondo, che l’uomo così ardentemente desidera conoscere, non è altro che il concetto di essere che egli stesso ha concepito, e non l’essere in quanto tale, che è pura esistenza. L’uomo, dunque, vuole catturare un fantasma creato dalla sua stessa mente. “Conoscere” è, in realtà, un puro atto esistenziale, uno dei “modi d’esistenza”. Il pensare è, dunque, già un atto di esistenza, esso la presuppone. Come dico in L’Uomo e la sua ombra, conoscere ed essere sono due cose che non possono trovarsi in un rapporto di reciprocità, nel senso che il primo non può inquadrare (determinare) il secondo, essendo l’essere (l’esistenza) ciò che presuppone ogni cosa, pensieri compresi. L’essere è mera esistenza, mentre il conoscere ed i suoi oggetti concettuali sono “modi d’esistenza”. In sostanza, ciò che l’uomo può conoscere sono solo determinati “modi d’esistenza”; e tali sono gli oggetti del mondo, compresi quelli progettati dal Pensiero stesso. Non è possibile (ovvero non ha senso) voler conoscere l’essere in quanto tale, nella sua mera esistenza, perché coincidendo l’essere con la mera esistenza, bisognerebbe che l’uomo, allo scopo di determinarlo, si ponesse fuori dell’esistere stesso, se è vero, come è vero, che un oggetto di conoscenza necessita di un soggetto esterno che lo individui. Non si può provare logicamente l’esistenza, perché l’esistenza non è un’essenza, una metafisica, un teorema, una legge; insomma, non è un oggetto, ma un soggetto che va semplicemente individuato (se ci riferiamo ad una determinata entità) o vissuto (se ci riferiamo all’esistenza in quanto tale). E non si può obiettare a ciò facendo notare il fatto che, appunto, è possibile conoscere un singolo individuo esistente, perché ciò che si conosce di quell’individuo è il suo essere lì, davanti a noi, ma non la sua esistenza in quanto tale. Possiamo certo sapere come sia nato, come abbia vissuto – possiamo determinare il come, insomma, del suo esistere ma non il perché del suo esistere.
L’esistenza non è un “modo d’essere”, è semplicemente ciò che è e che non può non essere ciò che è (parafrasando l’eleate Parmenide); essa precede (nel senso che implica) qualunque cosa noi possiamo sapere o fantasticare su di lei, ogni suo possibile attributo, vero od immaginario: l’esistenza presuppone se stessa. La Logica, come massimo strumento del Pensiero e della Conoscenza, ovvero come massimo atto esistenziale, può creare esistenze (ovvero modi d’esistenza), non determinarne l’esistere in sé, che permane come un substrato, irriducibile ad ogni tentativo di spiegazione, similmente alla materia di Aristotele e alla sua infinita potenza. Il problema, qui, è che da millenni ci si sforza di vedere un’essenza (un significato) nell’esistenza stessa, oltre essa; si vuole operare una scissione all’interno del puro esistere, lo si vuole fare oggetto del Pensiero. Essendo, però, il Pensiero a sua volta esistenza, si pretende che l’esistenza diventi oggetto di se stessa, quando in realtà si tratta di quel soggetto assoluto di cui facciamo parte noi stessi. Siamo così abituati, per nostra natura, ad “oggettivare”, che vogliamo porci sempre oltre ogni cosa, persino oltre il puro esistere, oltre noi stessi. Il puro esistere non può essere conosciuto, ovvero esso non ha niente a che vedere con l’atto del conoscere: l’esistenza può essere solo vissuta; è il vissuto stesso; è essa stessa, solo se stessa, e nient’altro.
3) Il valore dell’agire umano – Il fatto che l’uomo, nel suo atto di pensare, rappresenti un libero costruttore di mondi, non deve tuttavia indurre a credere che le sue azioni e le sue scelte abbiano tutte lo stesso valore esistenziale, logico e morale. Non bisogna commettere l’errore di confondere la libertà di progettazione con una semplice e nuda libertà d’azione. In questo modo si scambierebbe la Libertà (che è un atto logico) con l’arbitrio (che è un atto illogico). Non è lecito (non è logico), ad esempio, pensare che nel ventesimo secolo la scelta nazista avesse lo stesso valore di quella democratica. Pur essendo l’uomo assolutamente libero di progettare il proprio mondo, è necessario che questo suo progetto esistenziale sia conforme alla sua natura, ovverosia rispetti quell’Essere da cui proviene, di cui egli rappresenta la massima espressione possibile. Affinché ciò che produce abbia una reale consistenza, l’uomo deve conformarsi a quei criteri di Armonia che sono alla base dell’Essere che è in lui, ovvero se stesso. L’uomo deve tenere fede a quell’equilibrio necessario tra i singoli individui, consistente in una perenne empatia tra gli stessi. Pertanto, solo un mondo solidale può essere realmente costruttivo. E perché un mondo sia solidale, è assolutamente necessario partire dal Principio Fondamentale dell’irriducibilità dell’individuo. Questo Principio, tuttavia, non deve in alcun modo convergere in una aprioristica e statica figura di uomo ideale, che, alla fine, porterebbe inesorabilmente all’annientamento dell’uomo reale, ma deve infondere di sé l’esistenza umana nel suo attuarsi. La sacralità dell’individuo, dunque, è nello stesso tempo una premessa delle nostre azioni e un fine verso cui tendere, alla stregua di quel Sommo Bene evocato da Kant. Essa deve assolutamente appartenere all’uomo del presente, sebbene costantemente ricercata e rimodellata nel vissuto quotidiano e storico. Quante volte, come nello stalinismo, abbiamo visto, in nome di una fratellanza stabilita idealmente e proiettata staticamente sulla parete di un futuro lontano, commettere sistematicamente crimini contro l’umanità del presente, finendo per annichilire dunque il soggetto stesso di quella fratellanza: l’individuo.
Deve dunque apparire chiara ed inconfutabile l’opposizione della mia filosofia a quel “relativismo soggettivistico”, così in voga tra gli intellettuali contemporanei, e che tanto suggestiona, per la sua immediatezza, le menti più sprovvedute ed incolte. Se, da un lato, infatti, io ritengo l’uomo assolutamente libero di progettare il proprio mondo, e di scegliere persino di non progettarne neanche uno, rimane categorico l’imperativo secondo cui ogni progetto realmente costruttivo non può che fondarsi sull’Armonia e l’empatia tra gli uomini. Per dirla in maniera sintetica e spicciola: l’uomo può scegliere di essere buono (costruttivo) come di essere cattivo (distruttivo), e se sceglie di essere buono (costruttivo) può esserlo in tanti modi (essendoci tanti progetti costruttivi tutti ugualmente validi). L’uomo è condannato ad essere buono se vuole sopravvivere, perché quella che comunemente chiamiamo col termine bontà non è altro che la sua reale natura. L’essere, dunque, in quanto coincide con l’esistenza, non può che essere armonioso, in equilibrio; e l’uomo, dell’essere (dell’esistenza), rappresenta la massima espressione. Per quanto banale ed ovvia possa apparire questa mia presa di posizione, essa è oggi la più difficile a far comprendere, perché la meno suggestiva di tutte, in un mondo che, già ampiamente progettato, sembra lasciare poco spazio alle scelte fondamentali, inducendo tante persone a rincorrere o l’idea di un uomo forte che semplifichi la complessità attuale o relativistici moti di ribellione, fondati sul nulla.
Resta, tuttavia, fermo il fatto che l’uomo sia assolutamente libero di scegliere anche progetti annientatori dell’umanità, ovverosia di se stesso, come il nazismo e lo stalinismo, così come un individuo è assolutamente libero di scegliere se fare a pezzi un computer oppure se costruirne uno nuovo. È ovvio che distruggere sia molto meno faticoso che creare. Crescere un figlio (un essere umano) è tremendamente più complicato che sparare alla testa ad un qualunque uomo, così come progettare una società dove tutti gli individui vivano in equilibrio, rispettando il vissuto di ciascuno, è tremendamente più complicato che progettarne una nella quale vi sia la libertà di uno solo e la schiavizzazione di tutti gli altri (il totalitarismo). Ecco, dunque, che sarà sempre presente il pericolo della scorciatoia politica e burocratica (il totalitarismo), pur essendo questa contro l’uomo stesso. Purtroppo, l’uomo, nel suo essere assolutamente libero, può anche scegliere di non essere libero! È qui che deve intervenire la Filosofia. È qui che si rende necessaria la sua presenza costante accanto all’uomo, e non il suo essere affaccendata a cercarne una fantomatica essenza. Essa ha il compito di educare l’uomo al Sacrificio e alla Logica – all’Etica e alla Scienza – che, per quanto possa apparire paradossale, sono un tutt’uno. E siccome la solidarietà tra gli uomini è un Principio Fondamentale, ma non un criterio statale e burocratico stabilito formalmente una volta e per tutte, esso va costantemente sperimentato nel vissuto, trovando, di volta in volta, le forme più idonee per il suo soddisfacimento. Non è possibile stabilire a priori un “criterio sociale” a cui conformare tutti gli uomini e le loro azioni. Ecco dunque che ogni Filosofia degna di questo nome deve necessariamente presentarsi come esistenzialista e libertaria, perché solo nel vivere quotidiano, solo nello sperimentare continuamente la propria natura nel tessuto sociale, l’uomo può individuare le forme di convivenza migliori per essere in equilibro con se stesso e con gli altri. Solo pensando (ovvero progettando), l’uomo può, di volta in volta, trovare i criteri giusti per mantenere saldi i due presupposti di ogni vivere sociale: 1) La libertà dell’individuo e 2) la fratellanza tra gli uomini. D’altra parte, il progettare rappresenta proprio l’uomo ed il suo pensare (la sua stessa essenza e il suo stesso essere); e così ogni forma che ne paralizzi l’azione e la libertà, come avvenuto nel cosiddetto “socialismo reale”, è contraria alla sua più intima natura.
4) Santificare la duplicità umana – Il Pensiero, ovvero l’uomo, si estrinseca attraverso il puro rapporto soggetto-oggetto; ma l’uomo, all’interno di questa dicotomia, è attore sia nell’una che nell’altra veste, ovvero contestualmente come soggetto pensante ed oggetto pensato – rappresentando l’uomo sia l’in sé (il mondo nel suo nudo essere), sia il per sé, ovvero quel nudo essere che prende coscienza di sé -. Il Pensiero, tuttavia, non si esaurisce in quel mero rapporto tra soggetto ed oggetto, ma implica, per dirla alla Kierkegaard, che quel rapporto si rapporti a se stesso, in una tensione perenne, attraverso un continuo oscillare tra una soggettività ed una oggettività assolute. E se, contro ogni metafisica, si tiene ben salda quella tautologia secondo cui non esiste altro che ciò che esiste, e che conseguentemente ciò che viene indicato come “essere” si identifica con “esistenza”, è evidente che, in quanto esistenza che prende coscienza di sé, l’uomo è da interpretarsi come l’essere per antonomasia, intendendosi qui, col termine “essere”, non una semplice creatura del mondo, ma l’essere nella sua totalità e novità esistenziale. E l’uomo è altresì coscienza, nel suo essere individuale, e autocoscienza, nel suo essere interprete di quella sua stessa coscienza.
L’uomo, pertanto, si presenta e si afferma, sin dal suo sorgere, costantemente come dicotomia, al punto che egli va identificato con questa, alla stregua di come lo si fa con il Pensiero, che è la sua stessa impronta esistenziale. Ed essendo l’uomo l’essere nella sua massima espressione, ovvero come Essere ed Autocoscienza, quel suo carattere dicotomico non va interpretato nel senso di un suo limite, nell’ottica di una opposizione che debba essere risolta e riconciliata in qualcosa che sia oltre l’uomo e la mera esistenza, ma, al contrario, come la funzione ontologica per eccellenza. Come affermo nella mia prima opera filosofica, L’uomo e la sua ombra, bisogna santificare la duplicità umana – quell’ineludibile dicotomia di soggetto e oggetto alla base del pensare – innalzando l’uomo a vera essenza della vita, ovvero identificandolo con quell’essere autentico che la metafisica ha sempre posto fuori dal mondo fenomenico, in contrapposizione al divenire, e conseguentemente oltre e contro l’uomo stesso.
Il Pensiero, dunque, pur manifestandosi secondo il rapporto soggetto–oggetto, non si conchiude in quella semplice dicotomia, cosa che ci renderebbe simili agli animali, ma necessità dell’alternarsi di quei due momenti opposti nella loro irriducibilità, cioè come soggettività assoluta e oggettività assoluta; cosicché l’uomo si prefigura come un pendolo che oscilla tra due eternità. Quella duplicità di soggetto e oggetto rinvia pertanto ad una duplicità di livello più alto, e il pensare consiste proprio in questo gioco di rimando.
L’uomo è quell’evento primigenio senza il quale la vita non avrebbe avuto alcun senso se è vero, come è vero, che il “senso” stesso, alla stregua di qualsivoglia concetto espresso con il linguaggio, al di fuori della coscienza non esisterebbe. E non esistendo nulla oltre l’esistenza stessa – una tautologia, questa, che necessariamente dobbiamo presupporre se non si vuole cadere in una assurda contraddizione – l’uomo, in quella sua peculiarità di individuo pensante, va visto come l’essere nell’essere. La duplicità umana rappresenta pertanto proprio quella funzione ontologica tanto inseguita dai filosofi di ogni tempo. L’uomo è un salto quantico e non un semplice anello nella lunga catena evolutiva dell’Universo. Semmai, l’uomo, come Prometeo, è colui che ha spezzato quella catena.
*** Se qualcuno volesse condividere un mio scritto, deve citarne la fonte, cioè me e il mio blog.