La Repubblica di Platone non è un’utopia

La Repubblica di Platone nella mia filosofia.

Nella mia filosofia la Repubblica di Platone, alla stregua di qualunque altra forma sociale, in quanto atto creativo dell’uomo, non è e non può essere considerata una mera utopia.
Solo confondendo l’ovvia influenza che ogni stato delle cose ha sulle scelte umane con quella ambigua idea evoluzionistica della storia – che finisce col ricondurre l’agire dell’individuo ad una necessaria consequenzialità tra il presente ed il passato, come se ogni sua azione rappresentasse solo un anello di una ineludibile catena di eventi – si può arrivare a considerare impossibile una forma di convivenza che tagli di netto con ciò che è e ciò che è stato. D’altra parte, il solo fatto di aver concepito una forma sociale del genere dimostra quanto, anche in virtù dei disequilibri e delle disarmonie sperimentati storicamente, l’uomo si ritenga in grado di fondare una convivenza basata su dinamiche nuove e più conformi alla sua più autentica natura.
In realtà, dietro la convinzione dell’impossibilità assoluta di realizzare la Repubblica di Platone, si cela quel grande equivoco che la mia filosofia vuole estirpare dalla mente umana, generato dalla convinzione che l’uomo sarebbe assimilabile all’animale così come il suo agire improntato alla istintualità, con la conseguenza di concepirlo incapace di poter creare liberamente, secondo un rapporto dialettico tra sé e le proprie determinazioni storiche, alle quali paradossalmente sarebbe subordinato dopo averle autonomamente concretate.
E’ proprio su questo grossolano equivoco che nella Logica, sin dai suoi albori, ha preso corpo quel concetto di “futuro necessario” (finanche quando se ne voleva difendere la contingenza!), ovverosia l’idea che ogni evento da noi vissuto, proprio perché già accaduto, rappresentasse a priori l’unica possibilità logicamente plausibile e verificabile tra le tante che si erano presentate, con la contraddittoria conseguenza di annullare sul nascere l’idea stessa di possibilità proprio in quanto possibilità, e con essa la libertà umana. Un circolo vizioso di tipo psicologico (più che logico) che non a caso, dopo due millenni circa, non un logicista, ma un indagatore dell’animo umano, come il grande filosofo esistenzialista Kierkegaard, ricondurrà alla sua natura virtuosa, concependo l’infinita possibilità di scelta (la libertà) come caratterizzante l’essere umano stesso, tanto caratterizzante da indurre il filosofo danese ad avvertirla come fondante quella disperazione interiore che spinge poi l’uomo a porsi in rapporto con l’Assoluto, con l’autentica Verità.

La Repubblica di Platone è un dovere.

L’idea di realizzare la Repubblica di Platone, dunque, non rappresenta assolutamente una utopia; essa si paleserebbe come tale solo nella misura in cui si pretendesse di adattarla d’un colpo e con la forza ad un popolo storicamente determinato, costituito, nella stragrande maggioranza, da individui non preparati ad accogliere il concetto fondamentale che ne è alla base, ovvero quello che il Bene di un uomo, e della comunità di cui fa parte, coincide con la Conoscenza. Si commetterebbe un errore logico e insieme psicologico nel tentare di imporre ad un qualunque popolo della Terra un criterio di vita, sebbene il più Nobile e Giusto, nel quale non potrebbe riconoscersi in alcun modo, che troverebbe del tutto estraneo alla propria indole sociale, sviato com’è da una millenaria visione del mondo che è l’esatto opposto di quella che, secondo l’ideale platonico, dovrebbe appartenergli per natura. Occorrono, pertanto, disciplina mentale ed un forte esercizio di analisi e di autoanalisi affinché un individuo riesca a comprendere ciò che è più conforme alla propria natura, incanalando e sublimando nel Bene quell’energia che disperde nel tentativo di superare le proprie inevitabili frustrazioni al cospetto di una società che lo allontana da sé, che lo aliena da ciò che egli veramente è e può manifestare di essere.
Un errore assimilabile a quello da me menzionato è stato il tentativo di imporre una società comunista, un esperimento che, non a caso, ha avuto un epilogo tragico ovunque sia stato adottato. E’ vero che, come sottolinea Marx, l’ideologia comunista rappresenta una conseguenza del capitalismo, una risposta, per certi versi inevitabile, a quelle sue contraddizioni immanenti, prerogative delle dinamiche stesse del mercato; è vero, dunque, che esiste un nesso di causa-effetto tra la società borghese e la rivoluzione socialista, tanto da poter persino pensare ad una evoluzione quasi automatica della prima nella seconda, tuttavia rimane il fatto che si è cercato di rendere attore protagonista un tipo di cittadino ancora immaturo rispetto a quella capacità di autodeterminazione necessaria in un mondo improntato alla visione marxista. E questa impreparazione, figlia di quella millenaria abitudine ad una opposta visione del mondo sociale, ha inevitabilmente portato al fallimento di quella transizione che appariva tanto ineludibile da indurre a pensare che fosse persino l’espressione di leggi matematiche. La verità è che, in un’epoca votata all’evoluzionismo, suggestionata dalle intuizioni di Charles Darwin, si è tenuto molto poco conto di tale elemento psicologico rispetto a quello socio-economico, quando è palese che il primo, sebbene determinato in notevole parte dal secondo, si è radicato nell’uomo in maniera così profonda che non può bastare una crisi di sistema perché ci si convinca della necessità di una concezione sociale opposta a quella consolidatasi, a maggior ragione quando questo nuovo mondo presuppone, come dicevo all’inizio, una autonomia di pensiero del tutto estranea ad un individuo abituato alla mera dipendenza. Lo stesso Platone, nella smania di mettere in pratica le proprie concezioni, cadde nell’errore di voler porre dall’alto ciò che deve primariamente essere divulgato nelle scuole attraverso un intenso e profondo studio della Filosofia, ovvero dell’uomo stesso, sebbene il grande ateniese fosse stato spinto verso quella forzatura più da un desiderio altrui che da una propria convinzione, tentando di realizzare la sua Idea di Stato nella città di Siracusa, con l’inevitabile fallimento dell’operazione. La volontà di mettere in pratica lo Stato Ideale, dunque, ha certamente un senso, ma a patto che essa si manifesti in uomini che abbiano compreso il significato più Alto del loro vivere. E coloro che intendessero dare del pazzo a chiunque crede in questa impresa, è bene che sappiano che finirebbero per affibbiare quell’epiteto anche e soprattutto al grande Platone, considerato che di quell’idea di Stato egli fu l’artefice. E l’offesa nei confronti del grande filosofo, nel rimarcare la presunta assurdità della sua concezione, sarebbe invero ancor più grave se si considerasse che l’uomo, nel corso della sua storia, è stato bellamente capace di mettere in pratica l’ideale politico più abominevole che potesse mai concepire, ovvero il nazismo, portandolo pure avanti per un buon numero di decenni. In tal caso, infatti, l’intelletto e lo spirito del discepolo di Socrate verrebbero considerati inferiori a quelli di individui dalla natura enormemente perversa ed abominevole; in sostanza il nome di Platone verrebbe posto al di sotto di quello di Adolf Hitler. E se si obiettasse che l’uomo, tra le due estreme tendenze del Bene e del male, sembra mostrare la capacità di realizzare solo la seconda, si arrecherebbe grave offesa non solo a Platone ma all’intero genere umano. E si commetterebbe innanzitutto oltraggio verso Dio, della cui Volontà l’uomo rappresenta la massima espressione. Realizzare la Repubblica di Platone, dunque, non è solo un semplice diritto che gli uomini possono intendere di esercitare, ma rappresenta soprattutto un loro dovere di fronte a Dio e al Mondo, ovvero rispetto allo loro stessa Natura.

Obiezioni serie alla “utopia” di Platone.

Si potrebbero muovere, invero, obiezioni più serie all’idea platonica che la Ragione rappresenti il fine ultimo della natura umana, e che conseguentemente la vita più adatta all’indole di un uomo, in quanto essere cosciente, sia quella improntata alla Ricerca, come espresso dallo stesso Platone in quel suo motto socratico che recita: «Una vita senza ricerca non è degna per l’uomo di essere vissuta». La prima, e più immediata, di queste obiezioni consisterebbe nel sottolineare come non sia affatto scontato che la razionalità rappresenti l’elemento primigenio della natura umana, passando in rassegna millenni di storia che sembrerebbero testimoniare proprio l’opposto, o quantomeno rivelare una sorta di compromesso tra l’istintualità e la razionalità, con la prima che appare oltretutto coincidere con l’essere uomini e la seconda come una risposta necessaria, una compensazione rispetto alla piena del fiume degli istinti. In tale ottica, peraltro, la Ragione neanche esisterebbe di per sé, palesandosi semplicemente come il risultato di un equilibrio dinamico. Ci troveremmo di fronte, in termini filosofici, ad un a priori (l’istintualità) e ad un a posteriori (la razionalità). A supporto di questa ipotesi sembrerebbero esserci i fondamenti della Psicanalisi, attraverso i quali Sigmund Freud, attribuendo il caratterizzarsi degli uomini, nelle loro manifestazioni apparentemente più normali come nelle perversioni più abominevoli, ad un delicatissimo equilibrio tra inconscio, io e morale, riconduce l’intera civiltà ad un meccanismo di razionalizzazione-compensazione degli istinti primari nel loro adattarsi alle varie fasi dell’evoluzione sociale e a quelle dello sviluppo psichico del singolo individuo. Un tale meccanismo appare in misura ancora maggiore nella variante psicanalitica offerta da Gustav Jung, che vede nell’inconscio il terreno infinito in cui sarebbero impiantati gli eterni archetipi sui quali l’uomo inconsapevolmente modellerebbe la costruzione del proprio “sé” e della società. Questa junghiana eternizzazione-assolutizzazione dell’inconscio accentua ancor di più quel ruolo della ragione come elemento compensatorio, riducendola addirittura a pura passività nel suo rappresentare un’immagine speculare delle dinamiche che si svolgono nell’interiorità. Se per Freud l’io arricchisce l’inconscio, per Jung l’inconscio nutre l’io. Non a caso la psicanalisi di Jung si traduce nella teoria dei “Tipi psicologici”, secondo la quale le dinamiche inconsce si oggettivano nei due fondamentali caratteri psichici dell’introversione e dell’estroversione, dalle cui articolazioni nascono i tipi introverso ed estroverso insieme ai loro sottotipi, con ciascun individuo che così viene a priori modellato e caratterizzato dal di dentro, ovvero dal profondo. E’ anche vero che Jung, proprio perché fonda la sua teoria sull’esistenza di archetipi (modelli) sostanzialmente invariabili, si avvicina a concezioni filosofico-razionalistiche, come quelle di Leibnitz e Kant, che vedono un certo “innatismo” nel pensare dell’uomo, facendo così apparire la sua psicanalisi come l’affermazione di una metafisica del pensiero. Così come è vero che, secondo il pensiero junghiano, quel percorso di sviluppo del “sé” implica che l’individuo possa rappresentare il superamento di quella sorta di genetica psichica da cui pure prende forma, attraverso il riconoscimento di tale eterna matrice universale e la conseguente capacità di ricomporne autonomamente i tasselli, alla stregua di come fa chi si cimenti nella ricostruzione dell’immagine di un puzzle. Resta comunque il fatto che la Ragione, in tutte queste concezioni, appare solo un compromesso, un derivato, un equilibrio dinamico all’interno di una istintualità dominante; nella migliore delle ipotesi, per usare un termine caro a Freud, un atto di sublimazione.
Un’altra obiezione, questa volta più di natura sociologica che psicologica, dunque maggiormente onnicomprensiva dell’agire e del pensare umano, peraltro coincidente con la concezione marxista della storia, potrebbe fare leva sul fatto di presupporre che ogni ideale, compreso quello di Platone, rappresenti solo una astratta sintesi mentale di complesse dinamiche materiali, facendo così derivare qualsivoglia concezione che l’uomo ha della società, del mondo e di se stesso da quei rapporti che egli instaura con le cose, interfacciandosi col complesso sociale, da un lato, e con l’ambiente naturale, dall’altro; rapporti così automatizzati da indurlo a sovrastrutturare, a concettualizzare quelle dinamiche produttive in cui è immerso, fino ad elevarle a legge di natura. La differenza sostanziale – e a vantaggio di Marx rispetto a Platone – tra il materialismo storico e la concezione del mondo insita ne La Repubblica, consisterebbe nel fatto che, per certi versi, il marxismo, svelando l’arcano economico che si cela dietro le idee che gli uomini si fanno della società e di se stessi, spiegherebbe anche la vera matrice concettuale insita nell’idea sociale prospettata da Platone, individuandone sia le ragioni materiali sia quegli stessi limiti d’applicazione che vi sono stati ravvisati. In sostanza Marx ingloberebbe Platone alla stregua di come lo Spirito di Hegel ingloba e giustifica ogni agire umano.
Sono evidenti gli elementi evoluzionistici e meccanicistici insiti in questa idea del divenire del pensiero, ridotto a mera espressione di dinamiche sociali alle quali sarebbe improntato, incatenando inevitabilmente la libertà d’espressione e dell’agire umano a schemi socialmente precostituitisi, riducendo, quasi a mera necessità, la libertà stessa. Anche qui, come nel caso della Psicoanalisi, sebbene questa volta sul piano sociologico, si vede una ragione rappresentare non tanto un qualcosa di autenticamente autonomo quanto piuttosto un atto di compensazione dinamica, di compromesso tra ciò che l’uomo sarebbe per natura, un essere legato indissolubilmente a bisogni biologici, e l’espressione degli stessi nel loro manifestarsi e nel reciproco rapportarsi. Come si vede non ci si è poi così tanto allontanati da Hobbes, si è solo resa la questione più complessa, più evoluzionistica e persino più circolare. Non a caso è ancora ed ampiamente aperto il dibattito sulla reale natura del marxismo, ovvero se esso rappresenti un affrancarsi dalla concezione dialettica hegeliana, una prometeica liberazione dell’individuo dall’Olimpo dello spirito hegeliano attraverso il fuoco della consapevolezza del proprio ruolo nel mondo, o invece una nuova catena dialettica sotto mentite spoglie. Le orribili perversioni in cui i vari tentativi di realizzare la società comunista si sono risolti, testimonierebbero in quest’ultimo senso.

L’utopia platonica resiste.

La verità – e qui si viene al fulcro della questione – è che bisogna partire da un presupposto del tutto antitetico rispetto a quello abitualmente prospettato nel rapportarsi dell’uomo alla Natura, o, per dirla in termini filosofici, dell’uomo all’Essere: il presupposto secondo cui l’uomo è emerso, nella lunga catena degli eventi dell’Universo, come un “salto quantico”, mutuando un’espressione dalla fisica. Non gli istinti, che pur gli appartengono, ma proprio la Ragione, ovvero la coscienza, rappresenta la base del suo rapportarsi con le cose e con i suoi simili. Quella compensazione dinamica, che pure ha una sua veridicità, è solo la conseguenza della predisposizione dell’uomo al ragionare, al discernere, e non la causa necessitante dell’ideare. Come mirabilmente intuito da Kant, sulla scia di Cartesio, l’io rappresenta un qualcosa di irriducibile, una “cosa in sé” che non può essere oggettivata in nessun modo, nel senso di poter essere prospettata e colta nella sua essenza all’interno dei rapporti tra l’uomo e le cose. Quella irriducibile natura è negli uomini come essenza ed è alla base dei rapporti in cui egli si manifesta interfacciandosi con le cose e con gli altri, e non è mai uno degli elementi di quel rapportarsi o il rapportarsi stesso; per dirla alla Kierkegaard, essa è quel “rapporto che si rapporta a se stesso”.
L’uomo, in sostanza, è un essere primigenio, pur essendo cronologicamente l’ultimo anello della catena evolutiva; la Ragione rappresenta un inizio, un big bang, proprio quel “salto quantico” ricordato prima. Partendo da questo presupposto, senza il quale occuparsi di Platone, e non solo della sua concezione statale, rappresenterebbe un esercizio del tutto fatuo, appare evidente come, al netto dei suoi inevitabili limiti storici e materiali, l’Idea platonica della società sia inevitabilmente superiore a qualsivoglia concezione materialistica della politica, imperniata com’è sull’autonomia, sul primato e sulla primigeneità della Ragione e sulla conseguente irriducibilità della libertà umana. Paradossalmente, per quanto anacronistiche, banali e a volte persino perverse ci possano apparire le istituzioni e le leggi prospettate da Platone nel suo Stato Ideale, rimane inalterato il senso più vero e profondo su cui esse si fondano: l’uomo come Ragione e la Ragione come uomo. E si badi bene che, in quest’ultima espressione, non v’è alcunché di hegeliano, trattandosi non di un rapporto circolare, ma di una assoluta identificazione. Il comunismo di Platone, così, pur nella sua ingenuità, è superiore a quello di Marx. Esso rappresenta inevitabilmente un classico senza tempo, proprio perché si basa su una idea metatemporale e metaspaziale: l’ontologia del Pensiero e la sua identificazione con l’Essere e l’essere uomo.
Anche il nemico filosofico per eccellenza di Platone, ovvero Friedrich Nietzsche, colui che obietta col martello a tutto l’armamentario razionalistico di Socrate, che assurge a massima espressione proprio nel suo discepolo, finisce col ricondurre l’uomo, contro ogni evoluzionismo e vuoto meccanicismo, alla irriducibilità della Volontà, unico vero in sé capace di essere ad un tempo fuori dalle cose e nelle cose stesse. Un concetto questo che, spesse volte equivocato, ha indotto a porre il filosofo della Volontà di Potenza o come ispiratore del massimo arbitrio (nazista) o come epigono del primato della Necessità, manifestazione filosofica di una presunta incapacità inconscia di affrancarsi da vecchi schemi metafisici.
La Repubblica di Platone, dunque, prendendo corpo dalla prometeica identificazione dell’uomo col fuoco della Ragione, è realizzabile proprio in virtù del suo affrancarsi, in nuce, da ogni catena che non sia quella del Puro Pensiero, che rappresenta la Vera Necessità di ogni uomo. E uno Stato in cui il bene delle istituzioni, il loro fine ultimo coincida con quello di ogni singolo uomo, dove la organicità della società e la libertà di ciascuno rimandano l’una all’altra, non può essere sentito e vissuto dagli uomini come una costrizione, ma, al contrario, come la massima esaltazione del proprio essere, della propria natura. La socialità, in sostanza, il vivere in comune, verrebbe percepita come la massima espressione di se stessi, e dunque come un sentire gioioso.

Differenze tra lo Stato Ideale e la società contemporanea.

Guardiamo, invece, alla società contemporanea, a quella palese insofferenza di ciascun individuo rispetto a qualsivoglia sistema di regole, all’idea stessa di far parte di una organicità. Tutto è improntato alla disgregazione, in nome di un individualismo che, lungi dal rappresentare la manifestazione della natura umana, finisce con l’omologare i singoli individui ad un paradossale “modello di individuo” che annienta ogni autentica volontà individuale; e la annienta sul nascere in quanto quell’individualismo è il frutto di quel disaggregante tutti contro tutti, determinato dalla necessità capitalistica di portare gli uomini a competere gli uni contro gli altri. E questo paradosso, ovvero di una organizzazione sociale imperniata sull’opposto istinto della disgregazione, è la conseguenza di una società basata sull’idea antitetica a quella su cui Platone fonda la propria visione dello Stato: l’idea secondo cui non la Ragione, non il Sapere, non la Ricerca, ma il mero istinto biologico della sopraffazione rappresenta il fine del vivere sociale.
E così, nella società contemporanea, ci sono certamente tanti individualismi, ma si tratta di individualismi assimilabili all’animalità, con restrizioni e limiti biologici (meccanicistici) imposti da una seconda natura, quella sociale. Tuttavia, a differenza degli animali, e proprio perché la propria Natura rivendica inconsciamente l’opposto, gli uomini vivono con grande sofferenza queste limitazioni biologiche, arrivando ad ammalarsi gradualmente e ad entrare nel vortice del nichilismo, di un desiderio di disgregazione sia del corpo sociale che del proprio. Quello che vediamo, in sostanza, è un mega circolo vizioso inerente una società i cui principi aggreganti posano sull’istinto della disgregazione di qualsivoglia ordine sociale, nonché sull’annichilimento del desiderio stesso di porsene uno, e questo perché non il Fine per cui l’uomo è nato viene perseguito ma il mezzo che si dovrebbe usare per raggiungerlo. Un rovesciamento già messo ampiamente in evidenza, con tutti i limiti ontologici ricordati sopra, da Karl Marx.
Persino quegli elementi residuali attorno ai quali gruppi di individui cercano di associarsi si palesano in realtà disgreganti e persino distruttivi, come la droga, l’alcool e la pornografia. E questo perché il perseguire di queste chimere è solo la perversa manifestazione di un impedimento psicologico, un perverso adattamento sociale ad una situazione insostenibile, alla stregua di quelle nevrosi individuali messe in evidenza dall’analisi freudiana.
Bisogna riabituare l’uomo a camminare sui propri piedi, ma partendo da quell’elemento irriducibile che è la Ragione, ovvero l’io, ovvero il suo autentico essere. Fino a quando non si comprenderà questo, ogni tentativo di soluzione o rimedio, come ad esempio il comunismo, è destinato inesorabilmente a fallire, perché non affrancato ancora dall’idea profondamente errata di una coincidenza assoluta tra l’uomo e la Natura da cui proviene. In questo senso, il comunismo ha rappresentato un meccanicismo in sostituzione di un altro meccanicismo. E questo varrebbe per ogni concezione socio-politica incapace di liberarsi da quell’errore ontologico di fondo.
George Orwell ha ben messo in evidenza, nella sua grandiosa opera intitolata “1984”, meglio conosciuta come il romanzo de “Il Grande Fratello”, il pericolo imminente del consolidarsi di una struttura sociale che meccanicamente perpetui se stessa, dove il potere, sfrondato di ogni attributo materiale in cui prima si alienava, a cominciare dal danaro, si presenti nella sua purezza, con la mera finalità di autorigenerarsi, alla stregua di una specie biologica il cui unico interesse è il perpetuarsi indeterminatamente ed inconsapevolmente nel tempo e nello spazio, indipendentemente dalla volontà degli individui in cui si manifesta. In sostanza, l’uomo rischia, dopo essere un giorno emerso, attraverso quel salto quantico, dalla specie di cui pure faceva e fa parte, affrancandosene come Coscienza, di ritornare al punto di partenza, con la differenza che questa volta la specie a cui potrebbe dover rispondere con istinto da animale sarebbe di tipo sociale, ovvero di un grado più alto. Finché la società umana sarà improntata all’istintualità e non alla Ragione, questo pericolo dovrà essere visto come un destino.
Si potrebbe anche qui muovere un’obiezione, questa volta tanto forte e decisiva da poter essere considerata come la massima obiezione possibile: la Repubblica di Platone rappresenterebbe qualcosa di irrealizzabile proprio perché in essa verrebbe inibito ciò che di più ineludibile esisterebbe nell’uomo, ovvero l’istinto, quando invece in tutte le società storicamente determinatesi, per quanto in maniera quasi sempre impropria, questa essenzialità biologica non è stata inibita se non parzialmente. E non solo; a riprova della presunta primigeneità degli istinti ci sarebbe il fatto che quando si è cercato di tenerli a bada oltre un certo limite, si sono manifestate grandi perversioni, come quelle nevrosi che colpiscono singoli individui repressi. In realtà, le cose stanno all’opposto, perché è proprio nella società ideale che gli istinti verrebbero fatti esprimere nella loro essenzialità, mentre nei sistemi sociali storicamente sviluppatisi, essi vengono controllati e deviati per ragioni di potere. Basta prendere come esempio i due istinti più ineludibili dell’uomo, quello della fame e quello sessuale. Partiamo da quello della fame. E’ vero o non è vero che l’istinto della fame, tanto ineludibile da essere legato alla stessa sopravvivenza della specie umana, è stato sempre usato dal potere come una leva per controllare e deviare le scelte dei popoli attraverso uno scientifico depauperamento delle masse, restringendo al minimo gli ambiti entro cui esse potessero soddisfarlo, e tutto questo allo scopo di renderle facilmente ricattabili, offrendo come briciole di salvezza ciò che invece spetterebbe loro di diritto, in cambio di sostegno politico e sociale?! Chi non ha sentito affermare da eminenti scienziati il fatto che, grazie alle biotecnologie agricole, potrebbe essere sfamata una popolazione due volte più grande di quella che oggi soffre la fame solo se si decidesse di promuovere piani di riconversione agricola di territori inariditi dall’uomo o dalla natura?! Perché non si adottano queste misure incontestabilmente possibili?! La risposta a queste domande è unica ed è già stata data sopra, come già è insita nel modo in cui si sta evolvendo la società mondiale.
Prendiamo, adesso, come secondo esempio, l’istinto della sessualità. Nelle società storiche il sesso è stato usato, per la sua natura di regolare l’equilibrio energetico all’interno del corpo e della psiche, o in senso inibitorio o come atto di sfogo, a secondo della natura del corpo sociale da suggestionare, e mai indotto ad incanalarsi secondo vie naturali. Orwell, brillantemente e con grandi capacità suggestive, espone tale questione nell’opera già menzionata. Il vertice della specie socing, l’anonima ed indeterminabile classe al potere, asseconda gli istinti sessuali del popolo, ormai ridotto a mera passività e povertà, inducendolo ad una rozza pornografia, mentre, all’opposto, inibisce ferocemente la libido nei funzionari del partito, rendendo isteriche le loro menti, fino a portarle all’ossessione, con lo scopo di deviare quel crescente fiume in piena di energie psichiche contro fantomatici nemici interni ed esterni, evitando così il sorgere di qualunque consapevolezza autenticamente critica, foriera di possibili scenari rivoluzionari – bisogna essere, infatti, più sottili e feroci nel controllare coloro che si occupano direttamente di attuare la falsa propaganda del regime, fino a ipnotizzare le loro menti -.
Nella Repubblica di Platone, invece, questi due istinti primordiali, come qualunque altro, verrebbero soddisfatti per quello che semplicemente sono, secondo la loro più intima natura. L’istinto della fame sarebbe soddisfatto come semplice e pura necessità di sfamarsi; e alla stessa stregua l’istinto sessuale, ovvero come semplice soddisfacimento del desiderio libidico in sé, con i tempi e i modi dettati dalla natura intrinseca dell’uomo, senza forme di adattamento deviate, ma solo assecondando quelle legate inevitabilmente al progresso tecnologico, con le relative strutture sociali e i conseguenti diversi approcci di ciascun individuo verso l’altro, e comunque sempre al servizio di se stessi, ovvero per la propria utilità e libertà d’espressione.
E quello che vale per gli istinti, anzi rimanendo sostanzialmente nel loro ambito, vale per tutte quelle determinazioni di tipo morale ed etico, che si possono riassumere sotto la voce di costumi. Nelle società storicamente determinatesi, noi vediamo il sorgere, l’evolversi – e talvolta lo sparire – di categorie di pensiero che caratterizzano, in un senso positivo o negativo, intere epoche: il maschilismo, il femminismo, il nazionalismo, il cosmopolitismo, il populismo, e, più in generale, l’affermazione di tante parziali visioni della vita, espresse da gruppi dominanti, con l’inevitabile svilupparsi di una malcelata insofferenza o, peggio ancora, di forme di razzismo verso quelle di gruppi minoritari o subalterni. In sostanza, si verifica l’affermarsi di particolari concezioni sociali e politiche con la conseguente fittizia divisione in ciò che sarebbe giusto e ciò che sarebbe sbagliato, con l’occultamento delle vere ragioni sociali e psicologiche alla base di quelle stesse forme di pensiero. E l’evoluzione sociale, con tutte le sue categorie etiche e morali, si identifica proprio con quell’occultamento, è storia di quell’occultamento stesso e della deviazione degli istinti, prima innalzati ad assolutezza, e poi controllati nel loro manifestarsi; così come avviene, sotto l’egida del Super-io, nella psiche di un nevrotico.
Esemplare quella concezione della “banalità del male” che Hanna Arendt espone nell’omonimo libro, suggestionatale dalle testimonianze di alcuni carnefici durante uno dei tanti processi agli ex gerarchi nazisti. Per l’autrice era stato agghiacciante l’aver individuato solo futilità nelle ragioni alla base di azioni tanto malvage. Alla coscienza della filosofa quegli orrori si rivelavano tanto più terrificanti quanto più le si palesava il fatto che in realtà essi fossero stati perpetrati senza alcuna ragione apparente. Ed è proprio questo che si è verificato nelle società che si sono finora sviluppate storicamente e materialmente, tanto riguardo alle cose di poco conto quanto a quelle più profonde. Soffermiamoci per un attimo, rimanendo in tema, su quei tanti giovani che oggi abbracciano il nazismo e l’antisemitismo. In realtà essi, come appare evidente nell’ascoltarli, non sanno assolutamente nulla delle ragioni storiche che sono alla base dell’uno come dell’altro, al punto che sarebbe finanche superfluo chiedere loro conto di quelle scelte. In parole povere, anche la banalità del male, in tutte le forme con cui si manifesta, come l’assoluta inconsistenza valoriale, intellettuale e persino fattuale di cui è intrisa, ha come suo fondamento quel necessario adattamento dinamico degli istinti deviati dal loro corso naturale per ragioni di sopraffazione. Capita, in sostanza, come conseguenze incontrollabili, che residui di quegli adattamenti si cristallizzino in mode orribili e senza un senso apparente.

La Repubblica di Platone coincide con la Ragione.

Alla luce di quanto evidenziato sopra, non deve sorprendere la circostanza che, per quanto le Costituzioni dei singoli paesi recepiscano principi sociali e statali che sembrano provenire, nella loro sostanza, da quello scopo universale che è proprio dell’uomo, nei fatti le società deviino costantemente da quelli, andando nel senso opposto. Ciò è il risultato di un conflitto, in seno alla coscienza dell’uomo, tra una Natura Razionale, che vorrebbe affermare se stessa, e la costante deviazione dal suo corso ideale, con la conseguenza di perdersi nei complessi meandri di una società estranea alla sua essenza, finendo per assecondare quella animalità che gli è più immediata. In tale ottica va inquadrata la dilagante crescita ed affermazione della criminalità organizzata, la quale finisce paradossalmente col rappresentare l’elemento maggiormente conforme a quella deviata forma di rapporti sociali fondata sulla sopraffazione. Ciò che vale per gli esempi appena messi in evidenza, come quello classico del nazismo, vale per tutte le forme d’espressione culturale, da quelle gradevoli a quelle orribili, da quelle popolane a quelle elitarie. Non che nella Repubblica di Platone non ci sarebbero categorie ideali e sociali, in sostanza i cosiddetti costumi, ma questi rappresenterebbero semplicemente il normale, e non deviato, adattamento sociale dei cittadini al progresso tecnologico e alle conseguenti diverse forme di convivenza che ne scaturirebbero. Ad esempio, a scopo di chiarimento, nella Repubblica di Platone l’omosessualità non rappresenterebbe né un bene né un male, ma solo un normale approccio alla vita, che potrebbe persino divenire la forma sessuale preminente in un’epoca in cui la procreazione diventasse del tutto artificiale. La stessa cosa nei rapporti di forza tra donne e uomini; nessuna preclusione di partenza per un ruolo della donna assolutamente paritario al cospetto degli uomini. Emblematico, in tal senso, il fatto che la Repubblica di Platone, già nella sua forma originaria, come cioè prospettata nell’omonima opera del filosofo, mostri di privilegiare una sostanziale parità nei rapporti tra i due sessi.
E’ assolutamente ovvio che anche nelle forme sociali che si sviluppano storicamente, questi tipi di emancipazione si vadano affermando, ma è pur sempre vero, come messo in evidenza prima, che questi scenari si evolvono sempre secondo adattamenti sociali di una perversione immanente, che vede costantemente la sopraffazione di un gruppo di potere sul resto. E così, non solo assistiamo a guerre ideologiche di ogni tipo, frutto di un mero adattamento dinamico e non di una autentica consapevolezza rispetto alle idee che si sbandierano, tra le varie necessità reali che vanno affermandosi, ma anche allo svilimento di quegli stessi valori, che vengono vissuti perversamente come mode e non come semplici espressioni di vita sociale. In sostanza, anche quando queste idee sono suggestionate da un profondo senso dell’umano ed improntate ad una volontà di sana socialità, proprio nello schematizzarsi come mode perdono la loro essenza più veritiera, quella di rappresentare solo ed unicamente dei sani adattamenti sociali, idonei allo sviluppo del singolo individuo e dello Stato. E tutte queste idealità, alla fine, si perdono in quel buco nero che inesorabilmente le attrae a sé; quel potere senza volto e meccanicistico che perpetua se stesso come specie.
Alla Volontà autentica che risiede nel profondo di ciascun uomo, ovvero quella del desiderio di conoscere il mondo, e dunque se stessi, si contrappone una volontà estranea – fredda e meccanica – che l’uomo ha partorito dentro di sé nella storpiatura di porre gli istinti alla base del proprio vivere, rendendola un mostro ingovernabile fino al punto di alienarvisi inconsapevolmente. Una volontà terribilmente estranea, e che assomiglia così tanto a quella di cui parla Schopenhauer, da indurre a pensare che il grande pessimista tedesco avesse già avvertito questo pericolo senza tuttavia saperlo cogliere nel terreno sociale da cui era nato, ovvero quello del potere politico, finendo così per innalzare quella volontà addirittura a volontà del mondo stesso, coincidente con quello.


LA FILOSOFIA DI PAOLO SORRENTINO

E sui due equivoci di cui è vittima.


Uno dei passatempi attuali, in un’epoca in cui evidentemente non si riconosce la giusta importanza da attribuire al Tempo, il che vuol dire alla Vita, è quello di criticare (ovvero parlare male) del cinema di Paolo Sorrentino. Che degli attuali parlino male di un inattuale è tutto sommato abbastanza coerente. Ma mi incuriosisce sempre il modo con cui ciò accade, perché mi serve a capire quale artificio di volta in volta si inventa la miseria umana allo scopo di vivacchiare. Ammetto che, essendo il Poeta un mio connazionale (nel senso di cittadino di Parthenope) io possa essere tendenzialmente (spero non tendenziosamente) più vicino a lui che ai suoi accusatori. Fatta tale ammissione psicologica, passo alla rappresentazione dei due equivoci che a mio parere pesano sull’arte del giustamente famoso regista, equivoci che mi permetteranno ad un tempo, secondo un classico schema dialettico, di illustrarne la poetica. Anticipo che il primo di questi equivoci riguarda esclusivamente il suo modo di rappresentare l’animo umano attraverso la macchina da presa, il secondo invece è incentrato sul fatto che quella sua stessa arte appartenga più in generale all’espressività napoletana, con la conseguenza che il secondo di questi due equivoci si allarghi da Sorrentino ad una intera generazione di tragici e alla città che li ha partoriti, come avrò modo di illustrare.

Il primo di questi equivoci lo possiamo identificare con una ormai frase fatta che riguarda il cinema del poeta napoletano, ovvero: “Nel cinema di Sorrentino non esiste una trama complessa”. Come accennavo, dunque, questo primo equivoco riguarda l’espressività, il modo in cui, soprattutto da La grande Bellezza in poi, il regista tende ad evocare quel groviglio di sensazioni che attanagliano il suo spirito in una età dove un uomo, alla maniera dello Spirito di Hegel, comincia a riflettere su se stesso, a cercare di autodeterminarsi, ad assolutizzare ciò che in passato viveva in maniera sofisticamente spensierata. Quell’età in cui si dà valore alle cose quando esse non ci sono più, quando un uomo passa dalla “animalità” alla “umanità”; quando un uomo vive di meno e pensa di più. In termini non filosofici, questa viene chiamata Nostalgia.

Come lo stesso Sorrentino ha affermato in alcune interviste, da maturi si diventa più poeti, più evocativi. Ciò non vuol dire che si diventi meno produttivi, come solitamente si tende a vedere oggi l’umanità in fase avanzata, ma semplicemente più sistematici. È come quando si raccolgono e si catalogano i dischi e i libri della propria giovinezza sistemandoli secondo un ordine preciso allo scopo di renderli più fruibili. Si riordinano gli oggetti del nostro passato così come si riordinano le proprie idee. E quante volte capita, anche a noi che non siamo poeti, di essere sorpresi, mentre ci troviamo distesi sul letto, da un pensiero nostalgico, forse indotto da un odore familiare che improvvisamente arriva alle nostre narici. Ci sentiamo nostalgicamente catapultati in un flash del passato, con quella dolce sensazione di riviverlo. La gioia che proviamo è di difficilissima evocazione. È proprio per questo che esistono i poeti come Sorrentino, ovvero coloro che sanno tradurre in immagini, in parole o in musica quello che ciascuno di noi prova e che tuttavia non sa come esprimere. Insomma, siamo più alle prese col rendere lineare e comprensibile ciò che abbiamo vissuto piuttosto che creare nuove trame di vita. Viviamo, per così dire, con la volontà di raccogliere nostalgie, proprio come la musica di quei dischi. Deve essere, questa, proprio una tendenza naturale se è vero che mentre i dischi li raccogliamo per nostra volontà i ricordi ci sovvengono invece del tutto spontanei.

Il cinema di Sorrentino, da La grande Bellezza in poi, viene accusato dunque di essere quasi privo di trama. Io mi chiedo come, alla luce di quanto da me pur maldestramente detto sopra, ci si possa meravigliare di questo. La cosa diventa ancor più indisponente quando a commettere questo errore sono persino uomini che, parafrasando Eduardo: “Hanno la penna in mano!” È del tutto ovvio e conseguente il fatto che il cinema attuale (ma inattuale) di Sorrentino, preso dalla evocazione della nostra interiorità, sia caratterizzato da un lato da trame molto lineari e, dall’altro, al contrario, da immagini superbamente evocative quanto inesplicabili e da un profondo parlare aforistico. È del tutto ovvio che non sia presente nei suoi film attuali (ma inattuali) una ingarbugliata trama esterna dal momento che il genio napoletano vuole dipanare quell’intricata e labirintica trama dello spirito. Si tratta qui proprio del processo inverso: non ingarbugliare il semplice (creando una trama) ma sbrogliare la complessa trama dell’anima. La trama del mondo esterno diventa semplice evocazione della trama del mondo interiore, una sua espressione lineare. La trama, dunque, nel poeta c’è ma è nascosta dentro di lui, è quella della sua interiorità. Per Sorrentino la trama diventa quello che è la nebbia per Totò: “C’è ma non si vede!” E cosa cerca appunto di fare un poeta di quella trama spirituale che lo attanaglia se non tentare di dipanarla, di rendere dunque apollineamente legiferabile ciò che gli appare una matassa ingovernabile?! Il processo a cui si sottopone un poeta è dunque opposto a quello a cui abitualmente si sottopone l’uomo comune: semplificare (non nel senso di rendere superficiale) ciò che si palesa complesso ed inestricabile. D’altra parte si sa che la Poesia non ha trama. Si potrebbe dire che più un film ed un romanzo si avvicinano alla Poesia meno trama si troverà al loro interno. A questo punto potrei dire che Sorrentino sarà diventato un massimo poeta cinematografico il giorno in cui avrà realizzato un film senza alcuna traccia di trama, eppure capace di essere evocativo ed entusiasmante come nessun altro. Io confido molto che il mio connazionale greco possa raggiungere tale vetta. A proposito di poeti e di tali vette voglio ricordare un grande racconto di Edgar Allan Poe, il più evocativo di tutti, intitolato L’uomo della folla. Non è un caso che quello sia il racconto in cui il grande poeta americano non disegna alcuna trama, essendo la trama tutta compresa nell’animo del protagonista alle prese con un misterioso uomo che manifesta una inspiegabile “fame di folla”. Quando vedo un film di Paolo Sorrentino, mi viene sempre in mente quel racconto. A tal proposito, da filosofo a poeta, invito il mio compagno greco a realizzare un giorno un film basandosi proprio su quel misterioso racconto. Chissà non possa essere la volta in cui il regista trovi la propria massima evocazione.

Il secondo equivoco di cui è vittima Sorrentino, come anticipavo, è un equivoco che lo riguarda come napoletano. È un equivoco condominiale, potremmo dire! Questo è un equivoco che, a mio sempre modesto parere, è indissolubilmente legato alla struggente Bellezza di Napoli. Seguitemi bene e capirete.

Voi tutti uomini colti ed istruiti sapete che nessuno si permetterebbe (neanche di pensare) che siccome l’Amleto di Shakespeare si svolge nel Regno di Danimarca le sue tematiche riguardino solo i danesi. Tutti voi sapete benissimo che i travagli spirituali del principe Amleto sono quelli di un qualsiasi uomo, si tratta dunque di travagli universalmente riconosciuti e riconoscibili. L’Amleto potrebbe svolgersi a New York come a Pechino, nell’Atene antica di Platone come nella Atene attuale di non so chi. Altrettanto, sempre voi colti ed istruiti, che recentemente accusate Sorrentino di essersi troppo arrotolato attorno alla sua napoletanità, sapete benissimo che mai c’è stato qualcuno che abbia immaginato di confinare “Uno, nessuno e centomila” di Pirandello nella cultura della Sicilia in cui si svolge la storia del protagonista. Siete ben consapevoli che il terribile tema del “relativismo psicologico” evocato da Pirandello attanaglia qualunque spirito umano, dagli Appennini alle Ande. Eppure, quando si tratta dei tragici napoletani, tutto viene ridimensionato (se non artisticamente, almeno geograficamente e soprattutto culturalmente) a Parthenope. Basti pensare, tanto per fare un esempio, a “Natale in casa Cupiello” di Eduardo. Qui il senso di universalità, che pure è presente (altrimenti non si tratterebbe di arte ma di artigianato), viene misteriosamente ridotto alla particolarità napoletana. Evocando l’Eduardo di Napoli milionaria a proposito di quella paradossale figura del ladro tutto napoletano, si dice che la tragedia “Natale in casa Cupiello” è stata certamente realizzata e che non poteva essere realizzata se non a Napoli (come il famoso furto del piroscafo con tutto il carico fatto come esempio da Eduardo). Perché si tende a non riconoscere ciò che di universalmente tragico (ed universale proprio perché tragico) c’è in quella tragedia di Eduardo?! Perché non si riesce a capire, o si fa di tutto per fare finta di non capire, che in quella tragedia il poeta napoletano evoca quello scontro che attraversa ogni epoca ed ogni luogo, perché appartenente all’uomo in quanto tale, ovvero lo scontro tra la generazione del passato e quella del presente, tra le radici da cui si è nati e le nuove radici da cui si vuole ripartire?! Perché non si vuole capire che il Presepe rappresenta per Lucariello il suo appiglio a qualcosa di Assoluto, così come per Ninuccia esso è nella volontà di autodeterminarsi, di credere od illudersi di aver trovato l’Amore vero?! E non è quel tema della ricerca di Assoluto davanti ad un Tutto che scorre inesorabilmente lo stesso tema che si sente nell’arte cinematografica di Paolo Sorrentino?! Che cos’è quella Grande Bellezza, da lui immortalata nel suo film più riconosciuto, se non quella “cosa in sé” kantiana che, sotto la superfice fenomenica, che pure rappresenta il nostro mondo reale e vivo (non apparente), rimane inalterata, così come la nostra memoria delle emozioni giovanili?! Detto in termini non filosofici, la Grande Bellezza non è sempre quella nostalgia che universalizza il nostro vivere, che ci unisce come uomini?!

Eppure tutta questa tragicità sembra che appartenga solo alla napoletanità allorquando viene messa in scena da un tragico napoletano. Ho fatto l’esempio di Eduardo ma avrei allo stesso modo potuto fare quello di Viviani. Come ho già sussurrato, deve essere quella struggente Bellezza di Napoli a condannarci alla particolarità, così come a volte un’inaudita bellezza può costringere una donna ad una feroce solitudine. Forse, come fa un nevrotico, che relega nell’inconscio ciò che non riesce ad affrontare, l’umanità vuole chiudere nei confini di Parthenope ciò che di più terribile gli appartiene, nel timore di sfidarlo.

Paolo Sorrentino, così, è piacevolmente costretto ad essere un poeta, perché a quella realtà, in quanto napoletano, in quanto greco, non può in alcun modo sfuggire. E forse proprio questa sua inconscia e terribile consapevolezza lo ha spinto a realizzare il film Parthenope, questa nuova tragedia dell’umano sentire, universale eppure particolare.

Buongiorno a tutti!

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Schopenhauer, un blogger ante litteram

Il filosofo Arthur Schopenhauer è un caso fuori dell’ordinario nella storia della filosofia. E ciò non solo per il suo particolarissimo pensiero, del quale non mi occuperò qui, ma per due aspetti formali che sono il frutto di una scrittura straordinariamente attuale per un uomo del primo ottocento, e di un’idea dell’intellettualismo che, al contrario, è andata sempre più scemando, al netto di qualche formidabile eccezione. Per queste sue peculiarità contrastanti, Schopenhauer rappresenta una sintesi di antichità nell’approccio filosofico e di modernità nell’espressione.

Il primo di questi due aspetti consiste nel fatto che, a differenza della stragrande maggioranza dei filosofi, Schopenhauer scrisse e pubblicò fondamentalmente una sola opera filosofica – “Il mondo come volontà e rappresentazione” – che provvide ad aggiornare costantemente nel corso della sua vita. Rispetto ad essa, le altre scarne pubblicazioni o ne rappresentavano una fase preparatoria o delle note a margine. Tuttavia quella sua scrittura così accattivante nel suo essere aforistica e ironicamente sferzante, tanto lontana dagli ambienti accademici, ha spinto molti avidi editori a pubblicare una miriade di sue presunte opere, e nello stile del pamphlet. E così sono apparse fantomatiche pubblicazioni di Schopenhauer del tipo “L’arte di ottenere ragione”, “L’arte di insultare” e via dicendo, circostanza che induce molti a pensare che il filosofo della Volontà avesse pubblicato in vita parecchi scritti quando in realtà ciascuno di questi non rappresenta altro che un insieme di estratti, sullo stile dell’aforisma, estrapolati dai suoi tanti appunti inediti. Tutti questi appunti sarebbero stati pubblicati in vita da Schopenhauer solo se nel suo tempo ci fosse stata una forma di autopubblicazione tipica della nostra epoca: il blog, nonché una capacità collettiva, estranea alla Germania hegeliana di allora, di comprendere pensieri filosofici non artificiosamente articolati ed espressi attraverso un linguaggio stringatissimo e satiricamente illuminante. Purtroppo oggi abbiamo gli strumenti per pubblicare pensieri profondamente inediti come quelli di Schopenhauer, ma non abbiamo gli Schopenhauer!

Il secondo aspetto che pone Schopenhauer fuori dell’ordinario è che la sua decisione di scrivere una sola opera sistematica era la diretta conseguenza del suo disprezzo verso l’idea di un curriculum e di una ricca collana personale, una pratica quest’ultima cara a molti suoi colleghi. Tanti filosofi preferivano infatti scrivere opere che, alla fine, nulla aggiungevano al proprio pensiero ma che servivano unicamente a raggiungere un certo numero di scritti che, quasi di default, era richiesto ad un pensatore. Questo ci deve far capire come Schopenhauer avesse a cuore solo la Conoscenza ed il Sapere in quanto tali, e non il rientrare in quella cerchia elitaria che vede in realtà la filosofia come mezzo per il proprio prestigio. Certamente Schopenhauer amava l’idea di raggiungere la gloria personale, ma il prefiggersi la gloria è cosa ben diversa dal volersi apporre le stellette della “cultura”. Come nel caso di un calciatore, la gloria la si raggiunge solo nel mirare a traguardi epocali, non nel mettere i contratti personali davanti a quelli.

Il fatto che Schopenhauer avesse deciso di pubblicare un’unica opera sistematica, aggiornandola costantemente, come si trattasse di una sorta di diario personale, lo rende davvero molto simile a quella figura intellettualistica contemporanea che viene identificata col termine “blogger”. Il linguaggio con cui egli si esprimeva era, come detto, molto lontano da quello sterilmente formale degli ambienti accademici e molto vicino invece ad un certo, anche se raro, intellettualismo contemporaneo. Non che egli abbia scritto in modo, come si direbbe oggi, divulgativo ma con una creatività ed uno stile polemico che rende eccitante l’inaudita profondità del suo pensiero. Il suo attaccare senza misura ma con grande sottigliezza linguistica e straordinaria ironia quelli che considerava solo degli sterili ed ammuffiti funzionari statali nei finti panni di intellettuali lo rendono molto simpatico a coloro, come me, che guardano con grande sospetto e disprezzo quello che solitamente viene indicato come “baronato universitario”.

Schopenhauer, dunque, è un condensato di “amore per il sapere”, ovvero di autentica figura filosofica (come nell’antica Grecia), e di vivida espressività contemporanea, mirante a raggiungere e ad appassionare chiunque voglia tendere alla Verità, fosse anche un ristretto numero di persone, ma non perché scelte a priori e senza autenticità, come accade negli ambienti fintamente intellettualistici delle attuali accademie, ma solo perché, ovunque queste persone si trovino, esse si facciano liberamente cogliere dalla vera passione per il Sapere.


Esistono due tipologie di allenatori (e di filosofie di gioco), non una sola

Affermare, come negli ultimi tempi fanno sempre più persone, che nel Calcio esisterebbe solo un tipo di gioco, quello che ha come referente Guardiola, mentre la sua controparte rappresenterebbe un “non gioco”, sarebbe come sentenziare che, dei due tipi psicologici messi in evidenza da Gustav Jung, solo uno fosse tale, mentre l’altro rappresentasse una sorta di “non essere umano”. Ed invece, se è vero come è vero che sia il tipo introverso che quello estroverso sono figure umane, è altrettanto vero che sia il gioco spagnoleggiante dei “guardiolani” sia quello italianista degli “allegriani”, hanno un uguale diritto di essere definiti “tipi di gioco”. Quale sia poi la corrispondenza (che certamente esiste) tra i due “tipi” di allenatori e i relativi “tipi” psicologici descritti da Jung resta da stabilire, sebbene tendenzialmente si possa pensare che gli allenatori “idealisti” alla Guardiola siano introversi mentre quelli “pragmatici” alla Allegri siano estroversi.

Comunque stiano psicologicamente le cose, bisogna mettersi in testa una volta e per tutte che i due modi di approcciare le partite di calcio, e le le relative varianti, hanno uguale dignità nel mondo del calcio, al netto dei gusti personali che possono portare ad amare l’uno piuttosto che l’altro. Entrambi questi tipi di strategie calcistiche rappresentano dunque un “gioco”, un modo cioè (perché tale è un “gioco”) per avere la meglio sugli avversari. È assurdo partire dall’idea che solo il cosiddetto “gioco corto e totale” rappresenti appunto un “gioco”, assurdità figlia dell’equazione gioco d’attacco = gioco. Se, sempre per assurdo, esistesse davvero una sola “tipologia di gioco”, non vedo come si potrebbe parlare di scontro tattico o strategico, dal momento che il tutto si ridurrebbe ad uno specchiarsi di dinamiche perfettamente uguali. In realtà, in quel caso non si potrebbe neanche parlare di gioco, essendo un gioco per definizione un incrociarsi di scelte diverse con il relativo insieme di variabili, che danno vita ad una infinità di combinazioni. Proprio in questa insensatezza rientra quella metafora usata da Arrigo Sacchi per descrivere quello che, a suo dire, sarebbe il vero modo di giocare a calcio; mi riferisco alla metafora dell’orchestra. Secondo Sacchi, infatti, una squadra dovrebbe comportarsi in campo alla stregua di una orchestra nel suo eseguire una sinfonia, ovvero in modo sempre armonioso e con i singoli interpreti che si muovono all’unisono secondo uno spartito predeterminato. Trovo questa metafora del tutto inappropriata, per la semplice circostanza che una orchestra sinfonica esegue unilateralmente uno spartito senza dover nel contempo misurarsi con un’orchestra concorrente. Una orchestra sinfonica, insomma, è chiusa in se stessa, può e deve limitarsi a concentrare i propri sforzi su ciò che deve fare secondo i dettami del suo direttore, senza preoccuparsi su come un’altra orchestra esegua lo stesso pezzo sotto la direzione di un altro maestro. Semmai, se proprio si vuole trovare una metafora per il calcio, si può pensare alla guerra tra due eserciti, dove ciascuno può e deve operare non limitandosi alle proprie caratteristiche ma adattandosi a quelle dell’avversario, del terreno e della metereologia, oltre al fatto di dover tenere conto delle varianti che lo scontro stesso via via presenta; proprio come in un gioco di carte. Ho preferito tuttavia usare la metafora bellica, sebbene poco piacevole, perché il calcio, in quanto sport di contatto, si presta, per la sua alta fisicità e lo scontro tra gli atleti, a quella similitudine.

Tutto questo che ho appena finito di scrivere si adatta perfettamente alla tanto discussa questione di come Garcia faccia giocare o “non giocare” il Napoli, che vede impropriamente l’allenatore francese accusato di non riproporre, lui che appartiene al tipo opposto di allenatore, il gioco fatto vedere da Spalletti. Per ritornare alla duale natura umana ricordata all’inizio, sarebbe come imporre ad un estroverso di essere introverso, di costringere un uomo ad essere un altro uomo. Questa assoluta scemenza, come tante altre che si sentono in quest’epoca, è frutto della non educazione alla Logica. Anche questa, insomma, è una assurdità dovuta al fatto che difettiamo in Filosofia.


Due aneddoti filosofici

Siamo nel IV secolo a.C., nella città stato di Atene, e precisamente ci troviamo in un luogo battezzato come “Accademia”. Al suo interno si ascolta, scultorea come il marmo, la voce del suo fondatore, mentre è intento a dare una delle sue lezioni: si tratta di Platone. In quel periodo, il titano del pensiero greco è intellettualmente eccitato dalla convinzione di essere molto vicino a trovare la quadra finale per quella sua Teoria sulla quale ha cominciato a riflettere sin da giovane: la Teoria delle Idee. Sembra che gli manchi proprio poco, solo un ultimo gradino, prima di consegnare agli uomini il nuovo fuoco della Ragione, come novello Prometeo.

Alla fine della lezione, accade tuttavia un fatto che segnerà la divisione del mondo in una lotta eterna tra due opposte concezioni della vita. Un giovane, educato e sobrio, come solitamente si presentava uno studioso in quell’epoca, si avvicina al maestro, e con modi rispettosi, ma decisi, quasi gli sussurra: “Maestro, io penso che la sua teoria presenti delle falle logiche” (e vedremo che la storia a posteriori riconoscerà a quel giovane il diritto per aver pronunciato quelle parole), e comincia ad elencarle con il dovuto rispetto ma con altrettanta fermezza. Quel giovane si chiama Aristotele.

Platone, nell’ascoltare quel suo giovane allievo, non si mostra affatto adirato con lui, ma tutto concentrato ed incuriosito davanti a quelle obiezioni, nonostante gli appaiano capaci di scuotere le fondamenta del suo monumentale edificio logico. E così Platone, udendo parole che gli risuonano nell’animo come possibili verità, assume, come tutte le volte che si trova davanti a qualcosa di tremendamente interessante, le sembianze di una marmorea statua greca, complici quelle sue spalle larghe unite ad una calma apollinea, al cospetto di quel giovincello dalle tipiche fattezze dionisiache proprie di un ribelle. Dopo aver udito tutte le sue obiezioni, Platone gli dice che rifletterà seriamente su quanto appreso e che presto gli farà sapere. Ebbene, Platone, nei giorni successivi, comincia a scrivere il Parmenide, ovvero quella sua opera che, da un punto di vista strettamente logico, diventerà la più importante tra tutte quelle da lui ideate.

Nel Parmenide il grande Platone fa due cose da autentico uomo, ovvero da autentico filosofo. Nel suo dialogo, infatti, egli mette alla frusta logica, prendendo come spunto le parole di quel giovincello, la sua amata creatura, la Teoria delle Idee. E non lo fa, badate bene, con artifici dialettici tali da farla uscire in qualche modo trionfante. Quella Teoria delle idee, tanto cara al suo autore, lascia invece la scena in favore di un ragionamento che rappresenta un tributo al dubbio. Dovete sapere che, da allora, nel corso dell’intera storia della filosofia, nessun critico di Platone, anche il più feroce di tutti, è mai riuscito a mettere sotto scacco la Teoria delle Idee con la stessa forza analitica con la quale la mise il suo stesso fondatore. Ma Platone, nello scrivere quel suo nuovo dialogo, non si limita a questa seria autocritica ma fa anche un altro gesto di una umiltà e nobiltà d’animo inequivocabili: “Con un anacronismo lusinghiero” – per evocare le parole di Sir Anthony Kenny“Platone presenta un personaggio di nome Aristotele”.
Notate qualche differenza con i ciarlatani spocchiosi che oggi sono accampati nelle accademie?! Avete mai provato a fare solo un piccolissimo appunto ad uno del cosiddetto baronato universitario?! Provateci …e vedrete cosa vi capiterà agli esami!

Saltiamo a 2300 anni dopo. Questa volta siamo in Inghilterra, divenuta nel frattempo centro fondamentale di studi di filosofia cosiddetta analitica (cioè del linguaggio), e precisamente ci troviamo nella città di Cambridge, all’interno della sua prestigiosa università. Un uomo maestoso nello sguardo, ironico e sobrio allo stesso tempo, come solo un inglese sa essere (un tipo alla David Niven, tanto per intenderci), sta dando una delle sue lezioni di logica. Si tratta di Bertrand Russell. Il filosofo inglese è intellettualmente eccitato dalla convinzione che stia per trovare la soluzione finale per la sua Teoria logica delle descrizioni, tra l’altro terribilmente simile a quella delle Idee del suo antenato greco Platone, per il quale non a caso prova una grande simpatia filosofica.

Ebbene, alla fine di quella lezione, un giovane spavaldo, più nei modi che nelle intenzioni, uno con un’espressione da mezzo pazzo, gli si avvicina e gli confessa candidamente che la sua Teoria delle descrizioni, come d’altra parte l’intera Logica, non è altro che un qualcosa di normativo, una invenzione particolare, che ha certamente la sua utilità, ma che non ha nulla di oggettuale, nel senso di assoluto: insomma, gli dice aristotelicamente che non ci sono idee platoniche nella logica, così come non ve ne erano nel mondo iperuranio del suo antenato ateniese. Quel giovane mezzo pazzo – che studierà ingegneria aerospaziale per poi scegliere di fare il maestro elementare, che scriverà un trattato di logica, per poi dire che la verità non può essere enunciata con la ragione ma solo ascoltata con l’anima – si chiama Ludwig Wittgenstein.

Russell, mentre si porta la pipa alla bocca, come fa tutte le volte che si trova davanti a qualcosa di tremendamente interessante, ascolta incuriosito quel giovane, e per nulla adirato, nonostante cominci ad intravedere in quelle obiezioni la possibile fine del suo sogno logico. Dopo le parole crudamente veritiere proferite dal suo giovane studente, Russell rimane per un momento in un assorto silenzio, per poi dirgli che rifletterà seriamente su quelle sue osservazioni.

Qualche anno dopo, considerate le difficoltà del giovane Wittgenstein nel trovare un editore disposto a pubblicargli la sua opera prima, troppo strana quanto il suo stesso autore, Russell decide di scriverne la prefazione, permettendo, così, al suo ex allievo di farla conoscere al mondo dei filosofi, e dando al contempo, considerato il grande valore logico insito in quell’opera, un contributo decisivo alla Filosofia stessa, nonché all’educazione dei giovani in merito alla necessità di essere onesti intellettualmente nell’esercizio della Conoscenza, momento imprescindibile per chi vuole essere un vero filosofo, ovvero un autentico uomo.

I miei due aneddoti, un po’ romanzati, sono ciò che di più caro potessi regalarvi in vista della mia prima lezione di storia della filosofia. Spero che di questi due aneddoti custodiate l’intrinseco valore filosofico, storico ed umano, come si fa con un tesoro inestimabile.


Il Platone “segreto”

Chiunque voglia approfondire il pensiero di Platone deve assolutamente fare riferimento alle ricerche di uno dei suoi più grandi studiosi a livello mondiale, il filosofo Giovanni Reale, autore, tra l’altro, di una monumentale Storia della filosofia dalle origini ad oggi, in collaborazione con Dario Antiseri.
L’opera che vi presento è: Platone, alla ricerca della sapienza segreta. Come già implicito nel titolo, con questo libro Giovanni Reale espone la propria tesi secondo cui il vero pensiero di Platone sarebbe rimasto segregato all’interno dell’Accademia, mentre i Dialoghi rappresenterebbero solo una suggestione poetica dell’autentico procedere nell’indagine filosofica, sostanzialmente improntato all’oralità, una sorta di testimonianza scritta di quel metodo di ricerca, tanto caro a Socrate, basato su un serrato gioco dialettico di domande e risposte attraverso il quale il maestro evidenziava l’assenza di Principi Primi ed indiscutibili dietro le convinzioni dogmatiche dei propri interlocutori, inducendoli, nel contempo, sulla strada del corretto pensare per il raggiungimento della Verità. Un tipo di indagine scientifica che avrebbe poi assunto il termine di «induzione», dalla quale Aristotele avrebbe poi, per estensione, tratto la sua logica “sillogistica”, che si fonda sulle “intuizioni intellettive” (premesse prime), di cui le “percezioni reali” (induttive) rappresentano solo una sorta di immagine. L’esistenza di dottrine non scritte, che Platone avrebbe affidato esclusivamente ai dibattiti e agli studi che si svolgevano all’interno della sua scuola, viene d’altra parte fatta intendere proprio da Aristotele, sebbene quest’ultimo – e qui le cose diventano un po’ controverse – abbia nei fatti mosso obiezioni alla Teoria delle Idee nella versione esposta dal suo maestro nei Dialoghi.
A favore della concezione di Reale gioca la circostanza che, nelle sue opere, Platone non giunge mai, se non raramente, ad affermare una determinata tesi, limitandosi più che altro a confutare, attraverso l’interlocuzione di Socrate, quelle che via via vengono esposte dai vari personaggi, arrivando finanche a mettere in discussione la sua stessa Teoria delle Idee, lì dove viene proposta. In sostanza, se volessimo intendere i Dialoghi come il luogo in cui Platone riassume l’intero suo pensiero, saremmo quasi costretti a considerare il filosofo delle Idee più come un epigono dello scetticismo dei sofisti che come il promotore di una propria concezione metafisica ed assolutistica della filosofia e del mondo stesso.
L’opera di Giovanni Reale è più importante, a mio parere, per la metodologia di ricerca a cui egli impronta la sua tesi sull’esistenza di “dottrine non scritte” che per i risultati filosofici a cui giunge in merito alla sostanza delle teorie attribuibili a Platone, e questo non perché io non ritenga suggestive quelle sue conclusioni, ma perché difficilmente possono essere viste come maggiormente veritiere rispetto ad altre che pure partono dallo stesso presupposto di un pensiero platonico che vada oltre i Dialoghi. Non mi sembra opportuno riportare qui una sintesi delle tesi esposte da Reale nella sua grande e suggestiva opera, sia perché sono del parere che temi di così vasta portata intellettualistica vadano approfonditi con la lettura dei libri in cui vengono proposti, sia perché una mia sintesi, pur seria, del pensiero dello studioso ne rappresenterebbe una inevitabile scimmiottatura, avendo io qui solo l’intenzione di condurre i miei lettori verso un’analisi altrui e non a metterne in discussione le fondamenta. Mi limito soltanto, a mo’ di suggestione, ad anticipare la tesi, peraltro comune a tutti i fautori delle “dottrine non scritte”, secondo la quale il Platone segreto pone alla base del mondo la dicotomia Uno-Diade, dove l’Uno coincide con il Bene mentre la Diade rappresenta l’indefinita pluralità in cui il primo perde la propria omogeneità ed assolutezza, dispiegandosi nella molteplice esistenza degli enti concreti, nei quali rimane tuttavia quell’impronta assolutistica a cui inevitabilmente sono ricondotti, una sorta di archetipo alla base di ogni divenire. Si palesa in tal modo un gioco di rimando tra l’essere nella sua essenza – l’omogeneo ed indivisibile essere parmenideo – ed il suo relativizzarsi nelle infinite prospettive del cosiddetto mondo reale. All’interno del dibattito sulla natura di quell’Unometafisica per alcuni studiosi, secondo i quali il Bene viene posto da Platone oltre l’essere stesso, in quanto Principio Primo di ogni possibile esistenza, o puramente matematica, per altri, che vede l’Uno come principio geometrico-normativo coincidente con la dialettica del dispiegarsi e ritornare in sé dell’assoluto – Reale propende per la prima ipotesi. Comunque sia, che la si voglia vedere nell’ottica metodologica o in quella più propriamente filosofica, quest’opera rimane un caposaldo nell’ambito degli studi classici, e, di tutti gli scritti dedicati da Reale al pensiero segreto di Platone, rappresenta la summa e il completamento, come lo stesso autore afferma nella prefazione:

Questo mio nuovo libro su Platone costituisce non solo la summa, ma, sotto certi aspetti, il completamento di tutti i miei precedenti lavori, con alcune novità, che ritengo di un certo rilievo. [ … ] Le novità che presento in questo nuovo libro, compresi i richiami sintetici delle precedenti acquisizioni, ruotano sostanzialmente intorno a una idea centrale, che ho a lungo meditato, ma che ho maturato solamente negli ultimi tempi, dopo una serie di ricerche e di verifiche condotte a vari livelli. Da qualche tempo alcuni studiosi hanno giustamente rilevato che Platone si colloca in un momento storico del tutto eccezionale, nel quale giunge a compimento una svolta culturale di portata veramente rivoluzionaria.

Giovanni Reale: Platone, alla ricerca della sapienza segreta.

L’Eutifrone ed il suo mistero

Questo piccolo gioiello di Platone (un dialogo brevissimo quanto intensissimo) rappresenta un vero rompicapo per gli studiosi non solo in rifermento alla sua collocazione nella cronologia delle opere del discepolo di Socrate, ma anche per stabilire quanto della famosa Teoria delle Idee appartenesse già al Maestro. L’Eutifrone, infatti, sebbene appaia, per questioni stilistiche e anche drammaturgiche, un dialogo da collocare nella prima parte della produzione platonica, quella in cui Socrate è dipinto come un uomo agnosticamente intento a smantellare le fatue certezze dei suoi interlocutori, sembra invece, da un punto di vista strettamente filosofico, a causa di un evidente accenno che in esso si fa alla Teoria delle Idee, da doversi porre quantomeno tra i dialoghi intermedi. La questione è di fondamentale importanza poiché se fosse vera l’appartenenza di questo dialogo al gruppo dei primi, dove Platone si mostra intento ad esprimere più il pensiero di Socrate che il proprio, si dovrebbe concludere che la Teoria platonica delle Idee avesse avuto in Socrate già una sua formulazione sostanziosa, al contrario se il dialogo appartenesse alle fasi successive della produzione letteraria del discepolo.
Comunque sia, e anche in virtù di questo mistero, invito a leggere questo dialogo in cui il Socrate platonico mostra tutta la sua abilità nel dimostrare al proprio interlocutore quanto ci sia di relativistico in ciò che appare, a prima vista, un concetto assolutistico, e quanto la Verità vera richieda uno sforzo di pensiero di gran lunga superiore a quello presente nel cosiddetto “senso comune”, uno sforzo che si chiama Filosofia.


Anthony Kenny: “Nuova storia della filosofia occidentale”

Sir Anthony Kenny, nominato baronetto dalla Regina Elisabetta II, è un grande filosofo, teologo ed educatore britannico. Egli ha, da alcuni anni, pubblicato una storia della filosofia in quattro volumi: Nuova storia della filosofia occidentale.
Questa storia della filosofia è scritta in quello stile sintetico ed analitico tipico di una mente anglosassone. L’opera ricalca, a mio modo di vedere, la famosissima Storia della filosofia occidentale di Bertrand Russell. E l’autore sembra non volerlo nascondere, sia nel metodo espositivo, come appena detto, sia nel titolo, che evoca proprio quella del grande logico inglese. L’opera di Kenny è, tuttavia, molto più completa di quella di Russell, conformemente a quel suo proporsi come una vera e propria storia della filosofia, con un conseguente valore didattico. Russell, invece, secondo le sue reali intenzioni, intese scrivere, dietro la “parvenza” di una storia della filosofia, una vera e propria opera filosofica nella quale mettere a confronto, immaginando un entusiasmante dibattito attraverso i secoli, le più grandi filosofie di ogni epoca con la propria visione logica del mondo. Ho notato, nella prosa di Kenny, una certa somiglianza con quella del suo grande predecessore, soprattutto in merito all’uso di una certa ironia. Tuttavia, è ben evidente come, da questo punto di vista, in quel suo voler essere ostentatamente ironico, il pur grande Kenny sia lontano dalla brillantezza e dalla spontaneità del genio di Russell.