Month: Ottobre 2023

Schopenhauer, un blogger ante litteram

Il filosofo Arthur Schopenhauer è un caso fuori dell’ordinario nella storia della filosofia. E ciò non solo per il suo particolarissimo pensiero, del quale non mi occuperò qui, ma per due aspetti formali che sono il frutto di una scrittura straordinariamente attuale per un uomo del primo ottocento, e di un’idea dell’intellettualismo che, al contrario, è andata sempre più scemando, al netto di qualche formidabile eccezione. Per queste sue peculiarità contrastanti, Schopenhauer rappresenta una sintesi di antichità nell’approccio filosofico e di modernità nell’espressione.

Il primo di questi due aspetti consiste nel fatto che, a differenza della stragrande maggioranza dei filosofi, Schopenhauer scrisse e pubblicò fondamentalmente una sola opera filosofica – “Il mondo come volontà e rappresentazione” – che provvide ad aggiornare costantemente nel corso della sua vita. Rispetto ad essa, le altre scarne pubblicazioni o ne rappresentavano una fase preparatoria o delle note a margine. Tuttavia quella sua scrittura così accattivante nel suo essere aforistica e ironicamente sferzante, tanto lontana dagli ambienti accademici, ha spinto molti avidi editori a pubblicare una miriade di sue presunte opere, e nello stile del pamphlet. E così sono apparse fantomatiche pubblicazioni di Schopenhauer del tipo “L’arte di ottenere ragione”, “L’arte di insultare” e via dicendo, circostanza che induce molti a pensare che il filosofo della Volontà avesse pubblicato in vita parecchi scritti quando in realtà ciascuno di questi non rappresenta altro che un insieme di estratti, sullo stile dell’aforisma, estrapolati dai suoi tanti appunti inediti. Tutti questi appunti sarebbero stati pubblicati in vita da Schopenhauer solo se nel suo tempo ci fosse stata una forma di autopubblicazione tipica della nostra epoca: il blog, nonché una capacità collettiva, estranea alla Germania hegeliana di allora, di comprendere pensieri filosofici non artificiosamente articolati ed espressi attraverso un linguaggio stringatissimo e satiricamente illuminante. Purtroppo oggi abbiamo gli strumenti per pubblicare pensieri profondamente inediti come quelli di Schopenhauer, ma non abbiamo gli Schopenhauer!

Il secondo aspetto che pone Schopenhauer fuori dell’ordinario è che la sua decisione di scrivere una sola opera sistematica era la diretta conseguenza del suo disprezzo verso l’idea di un curriculum e di una ricca collana personale, una pratica quest’ultima cara a molti suoi colleghi. Tanti filosofi preferivano infatti scrivere opere che, alla fine, nulla aggiungevano al proprio pensiero ma che servivano unicamente a raggiungere un certo numero di scritti che, quasi di default, era richiesto ad un pensatore. Questo ci deve far capire come Schopenhauer avesse a cuore solo la Conoscenza ed il Sapere in quanto tali, e non il rientrare in quella cerchia elitaria che vede in realtà la filosofia come mezzo per il proprio prestigio. Certamente Schopenhauer amava l’idea di raggiungere la gloria personale, ma il prefiggersi la gloria è cosa ben diversa dal volersi apporre le stellette della “cultura”. Come nel caso di un calciatore, la gloria la si raggiunge solo nel mirare a traguardi epocali, non nel mettere i contratti personali davanti a quelli.

Il fatto che Schopenhauer avesse deciso di pubblicare un’unica opera sistematica, aggiornandola costantemente, come si trattasse di una sorta di diario personale, lo rende davvero molto simile a quella figura intellettualistica contemporanea che viene identificata col termine “blogger”. Il linguaggio con cui egli si esprimeva era, come detto, molto lontano da quello sterilmente formale degli ambienti accademici e molto vicino invece ad un certo, anche se raro, intellettualismo contemporaneo. Non che egli abbia scritto in modo, come si direbbe oggi, divulgativo ma con una creatività ed uno stile polemico che rende eccitante l’inaudita profondità del suo pensiero. Il suo attaccare senza misura ma con grande sottigliezza linguistica e straordinaria ironia quelli che considerava solo degli sterili ed ammuffiti funzionari statali nei finti panni di intellettuali lo rendono molto simpatico a coloro, come me, che guardano con grande sospetto e disprezzo quello che solitamente viene indicato come “baronato universitario”.

Schopenhauer, dunque, è un condensato di “amore per il sapere”, ovvero di autentica figura filosofica (come nell’antica Grecia), e di vivida espressività contemporanea, mirante a raggiungere e ad appassionare chiunque voglia tendere alla Verità, fosse anche un ristretto numero di persone, ma non perché scelte a priori e senza autenticità, come accade negli ambienti fintamente intellettualistici delle attuali accademie, ma solo perché, ovunque queste persone si trovino, esse si facciano liberamente cogliere dalla vera passione per il Sapere.


Esistono due tipologie di allenatori (e di filosofie di gioco), non una sola

Affermare, come negli ultimi tempi fanno sempre più persone, che nel Calcio esisterebbe solo un tipo di gioco, quello che ha come referente Guardiola, mentre la sua controparte rappresenterebbe un “non gioco”, sarebbe come sentenziare che, dei due tipi psicologici messi in evidenza da Gustav Jung, solo uno fosse tale, mentre l’altro rappresentasse una sorta di “non essere umano”. Ed invece, se è vero come è vero che sia il tipo introverso che quello estroverso sono figure umane, è altrettanto vero che sia il gioco spagnoleggiante dei “guardiolani” sia quello italianista degli “allegriani”, hanno un uguale diritto di essere definiti “tipi di gioco”. Quale sia poi la corrispondenza (che certamente esiste) tra i due “tipi” di allenatori e i relativi “tipi” psicologici descritti da Jung resta da stabilire, sebbene tendenzialmente si possa pensare che gli allenatori “idealisti” alla Guardiola siano introversi mentre quelli “pragmatici” alla Allegri siano estroversi.

Comunque stiano psicologicamente le cose, bisogna mettersi in testa una volta e per tutte che i due modi di approcciare le partite di calcio, e le le relative varianti, hanno uguale dignità nel mondo del calcio, al netto dei gusti personali che possono portare ad amare l’uno piuttosto che l’altro. Entrambi questi tipi di strategie calcistiche rappresentano dunque un “gioco”, un modo cioè (perché tale è un “gioco”) per avere la meglio sugli avversari. È assurdo partire dall’idea che solo il cosiddetto “gioco corto e totale” rappresenti appunto un “gioco”, assurdità figlia dell’equazione gioco d’attacco = gioco. Se, sempre per assurdo, esistesse davvero una sola “tipologia di gioco”, non vedo come si potrebbe parlare di scontro tattico o strategico, dal momento che il tutto si ridurrebbe ad uno specchiarsi di dinamiche perfettamente uguali. In realtà, in quel caso non si potrebbe neanche parlare di gioco, essendo un gioco per definizione un incrociarsi di scelte diverse con il relativo insieme di variabili, che danno vita ad una infinità di combinazioni. Proprio in questa insensatezza rientra quella metafora usata da Arrigo Sacchi per descrivere quello che, a suo dire, sarebbe il vero modo di giocare a calcio; mi riferisco alla metafora dell’orchestra. Secondo Sacchi, infatti, una squadra dovrebbe comportarsi in campo alla stregua di una orchestra nel suo eseguire una sinfonia, ovvero in modo sempre armonioso e con i singoli interpreti che si muovono all’unisono secondo uno spartito predeterminato. Trovo questa metafora del tutto inappropriata, per la semplice circostanza che una orchestra sinfonica esegue unilateralmente uno spartito senza dover nel contempo misurarsi con un’orchestra concorrente. Una orchestra sinfonica, insomma, è chiusa in se stessa, può e deve limitarsi a concentrare i propri sforzi su ciò che deve fare secondo i dettami del suo direttore, senza preoccuparsi su come un’altra orchestra esegua lo stesso pezzo sotto la direzione di un altro maestro. Semmai, se proprio si vuole trovare una metafora per il calcio, si può pensare alla guerra tra due eserciti, dove ciascuno può e deve operare non limitandosi alle proprie caratteristiche ma adattandosi a quelle dell’avversario, del terreno e della metereologia, oltre al fatto di dover tenere conto delle varianti che lo scontro stesso via via presenta; proprio come in un gioco di carte. Ho preferito tuttavia usare la metafora bellica, sebbene poco piacevole, perché il calcio, in quanto sport di contatto, si presta, per la sua alta fisicità e lo scontro tra gli atleti, a quella similitudine.

Tutto questo che ho appena finito di scrivere si adatta perfettamente alla tanto discussa questione di come Garcia faccia giocare o “non giocare” il Napoli, che vede impropriamente l’allenatore francese accusato di non riproporre, lui che appartiene al tipo opposto di allenatore, il gioco fatto vedere da Spalletti. Per ritornare alla duale natura umana ricordata all’inizio, sarebbe come imporre ad un estroverso di essere introverso, di costringere un uomo ad essere un altro uomo. Questa assoluta scemenza, come tante altre che si sentono in quest’epoca, è frutto della non educazione alla Logica. Anche questa, insomma, è una assurdità dovuta al fatto che difettiamo in Filosofia.


Due aneddoti filosofici

Siamo nel IV secolo a.C., nella città stato di Atene, e precisamente ci troviamo in un luogo battezzato come “Accademia”. Al suo interno si ascolta, scultorea come il marmo, la voce del suo fondatore, mentre è intento a dare una delle sue lezioni: si tratta di Platone. In quel periodo, il titano del pensiero greco è intellettualmente eccitato dalla convinzione di essere molto vicino a trovare la quadra finale per quella sua Teoria sulla quale ha cominciato a riflettere sin da giovane: la Teoria delle Idee. Sembra che gli manchi proprio poco, solo un ultimo gradino, prima di consegnare agli uomini il nuovo fuoco della Ragione, come novello Prometeo.

Alla fine della lezione, accade tuttavia un fatto che segnerà la divisione del mondo in una lotta eterna tra due opposte concezioni della vita. Un giovane, educato e sobrio, come solitamente si presentava uno studioso in quell’epoca, si avvicina al maestro, e con modi rispettosi, ma decisi, quasi gli sussurra: “Maestro, io penso che la sua teoria presenti delle falle logiche” (e vedremo che la storia a posteriori riconoscerà a quel giovane il diritto per aver pronunciato quelle parole), e comincia ad elencarle con il dovuto rispetto ma con altrettanta fermezza. Quel giovane si chiama Aristotele.

Platone, nell’ascoltare quel suo giovane allievo, non si mostra affatto adirato con lui, ma tutto concentrato ed incuriosito davanti a quelle obiezioni, nonostante gli appaiano capaci di scuotere le fondamenta del suo monumentale edificio logico. E così Platone, udendo parole che gli risuonano nell’animo come possibili verità, assume, come tutte le volte che si trova davanti a qualcosa di tremendamente interessante, le sembianze di una marmorea statua greca, complici quelle sue spalle larghe unite ad una calma apollinea, al cospetto di quel giovincello dalle tipiche fattezze dionisiache proprie di un ribelle. Dopo aver udito tutte le sue obiezioni, Platone gli dice che rifletterà seriamente su quanto appreso e che presto gli farà sapere. Ebbene, Platone, nei giorni successivi, comincia a scrivere il Parmenide, ovvero quella sua opera che, da un punto di vista strettamente logico, diventerà la più importante tra tutte quelle da lui ideate.

Nel Parmenide il grande Platone fa due cose da autentico uomo, ovvero da autentico filosofo. Nel suo dialogo, infatti, egli mette alla frusta logica, prendendo come spunto le parole di quel giovincello, la sua amata creatura, la Teoria delle Idee. E non lo fa, badate bene, con artifici dialettici tali da farla uscire in qualche modo trionfante. Quella Teoria delle idee, tanto cara al suo autore, lascia invece la scena in favore di un ragionamento che rappresenta un tributo al dubbio. Dovete sapere che, da allora, nel corso dell’intera storia della filosofia, nessun critico di Platone, anche il più feroce di tutti, è mai riuscito a mettere sotto scacco la Teoria delle Idee con la stessa forza analitica con la quale la mise il suo stesso fondatore. Ma Platone, nello scrivere quel suo nuovo dialogo, non si limita a questa seria autocritica ma fa anche un altro gesto di una umiltà e nobiltà d’animo inequivocabili: “Con un anacronismo lusinghiero” – per evocare le parole di Sir Anthony Kenny“Platone presenta un personaggio di nome Aristotele”.
Notate qualche differenza con i ciarlatani spocchiosi che oggi sono accampati nelle accademie?! Avete mai provato a fare solo un piccolissimo appunto ad uno del cosiddetto baronato universitario?! Provateci …e vedrete cosa vi capiterà agli esami!

Saltiamo a 2300 anni dopo. Questa volta siamo in Inghilterra, divenuta nel frattempo centro fondamentale di studi di filosofia cosiddetta analitica (cioè del linguaggio), e precisamente ci troviamo nella città di Cambridge, all’interno della sua prestigiosa università. Un uomo maestoso nello sguardo, ironico e sobrio allo stesso tempo, come solo un inglese sa essere (un tipo alla David Niven, tanto per intenderci), sta dando una delle sue lezioni di logica. Si tratta di Bertrand Russell. Il filosofo inglese è intellettualmente eccitato dalla convinzione che stia per trovare la soluzione finale per la sua Teoria logica delle descrizioni, tra l’altro terribilmente simile a quella delle Idee del suo antenato greco Platone, per il quale non a caso prova una grande simpatia filosofica.

Ebbene, alla fine di quella lezione, un giovane spavaldo, più nei modi che nelle intenzioni, uno con un’espressione da mezzo pazzo, gli si avvicina e gli confessa candidamente che la sua Teoria delle descrizioni, come d’altra parte l’intera Logica, non è altro che un qualcosa di normativo, una invenzione particolare, che ha certamente la sua utilità, ma che non ha nulla di oggettuale, nel senso di assoluto: insomma, gli dice aristotelicamente che non ci sono idee platoniche nella logica, così come non ve ne erano nel mondo iperuranio del suo antenato ateniese. Quel giovane mezzo pazzo – che studierà ingegneria aerospaziale per poi scegliere di fare il maestro elementare, che scriverà un trattato di logica, per poi dire che la verità non può essere enunciata con la ragione ma solo ascoltata con l’anima – si chiama Ludwig Wittgenstein.

Russell, mentre si porta la pipa alla bocca, come fa tutte le volte che si trova davanti a qualcosa di tremendamente interessante, ascolta incuriosito quel giovane, e per nulla adirato, nonostante cominci ad intravedere in quelle obiezioni la possibile fine del suo sogno logico. Dopo le parole crudamente veritiere proferite dal suo giovane studente, Russell rimane per un momento in un assorto silenzio, per poi dirgli che rifletterà seriamente su quelle sue osservazioni.

Qualche anno dopo, considerate le difficoltà del giovane Wittgenstein nel trovare un editore disposto a pubblicargli la sua opera prima, troppo strana quanto il suo stesso autore, Russell decide di scriverne la prefazione, permettendo, così, al suo ex allievo di farla conoscere al mondo dei filosofi, e dando al contempo, considerato il grande valore logico insito in quell’opera, un contributo decisivo alla Filosofia stessa, nonché all’educazione dei giovani in merito alla necessità di essere onesti intellettualmente nell’esercizio della Conoscenza, momento imprescindibile per chi vuole essere un vero filosofo, ovvero un autentico uomo.

I miei due aneddoti, un po’ romanzati, sono ciò che di più caro potessi regalarvi in vista della mia prima lezione di storia della filosofia. Spero che di questi due aneddoti custodiate l’intrinseco valore filosofico, storico ed umano, come si fa con un tesoro inestimabile.