Siamo nel IV secolo a.C., nella città stato di Atene, e precisamente ci troviamo in un luogo battezzato come “Accademia”. Al suo interno si ascolta, scultorea come il marmo, la voce del suo fondatore, mentre è intento a dare una delle sue lezioni: si tratta di Platone. In quel periodo, il titano del pensiero greco è intellettualmente eccitato dalla convinzione di essere molto vicino a trovare la quadra finale per quella sua Teoria sulla quale ha cominciato a riflettere sin da giovane: la Teoria delle Idee. Sembra che gli manchi proprio poco, solo un ultimo gradino, prima di consegnare agli uomini il nuovo fuoco della Ragione, come novello Prometeo.
Alla fine della lezione, accade tuttavia un fatto che segnerà la divisione del mondo in una lotta eterna tra due opposte concezioni della vita. Un giovane, educato e sobrio, come solitamente si presentava uno studioso in quell’epoca, si avvicina al maestro, e con modi rispettosi, ma decisi, quasi gli sussurra: “Maestro, io penso che la sua teoria presenti delle falle logiche” (e vedremo che la storia a posteriori riconoscerà a quel giovane il diritto per aver pronunciato quelle parole), e comincia ad elencarle con il dovuto rispetto ma con altrettanta fermezza. Quel giovane si chiama Aristotele.
Platone, nell’ascoltare quel suo giovane allievo, non si mostra affatto adirato con lui, ma tutto concentrato ed incuriosito davanti a quelle obiezioni, nonostante gli appaiano capaci di scuotere le fondamenta del suo monumentale edificio logico. E così Platone, udendo parole che gli risuonano nell’animo come possibili verità, assume, come tutte le volte che si trova davanti a qualcosa di tremendamente interessante, le sembianze di una marmorea statua greca, complici quelle sue spalle larghe unite ad una calma apollinea, al cospetto di quel giovincello dalle tipiche fattezze dionisiache proprie di un ribelle. Dopo aver udito tutte le sue obiezioni, Platone gli dice che rifletterà seriamente su quanto appreso e che presto gli farà sapere. Ebbene, Platone, nei giorni successivi, comincia a scrivere il Parmenide, ovvero quella sua opera che, da un punto di vista strettamente logico, diventerà la più importante tra tutte quelle da lui ideate.
Nel Parmenide il grande Platone fa due cose da autentico uomo, ovvero da autentico filosofo. Nel suo dialogo, infatti, egli mette alla frusta logica, prendendo come spunto le parole di quel giovincello, la sua amata creatura, la Teoria delle Idee. E non lo fa, badate bene, con artifici dialettici tali da farla uscire in qualche modo trionfante. Quella Teoria delle idee, tanto cara al suo autore, lascia invece la scena in favore di un ragionamento che rappresenta un tributo al dubbio. Dovete sapere che, da allora, nel corso dell’intera storia della filosofia, nessun critico di Platone, anche il più feroce di tutti, è mai riuscito a mettere sotto scacco la Teoria delle Idee con la stessa forza analitica con la quale la mise il suo stesso fondatore. Ma Platone, nello scrivere quel suo nuovo dialogo, non si limita a questa seria autocritica ma fa anche un altro gesto di una umiltà e nobiltà d’animo inequivocabili: “Con un anacronismo lusinghiero” – per evocare le parole di Sir Anthony Kenny – “Platone presenta un personaggio di nome Aristotele”.
Notate qualche differenza con i ciarlatani spocchiosi che oggi sono accampati nelle accademie?! Avete mai provato a fare solo un piccolissimo appunto ad uno del cosiddetto baronato universitario?! Provateci …e vedrete cosa vi capiterà agli esami!
Saltiamo a 2300 anni dopo. Questa volta siamo in Inghilterra, divenuta nel frattempo centro fondamentale di studi di filosofia cosiddetta analitica (cioè del linguaggio), e precisamente ci troviamo nella città di Cambridge, all’interno della sua prestigiosa università. Un uomo maestoso nello sguardo, ironico e sobrio allo stesso tempo, come solo un inglese sa essere (un tipo alla David Niven, tanto per intenderci), sta dando una delle sue lezioni di logica. Si tratta di Bertrand Russell. Il filosofo inglese è intellettualmente eccitato dalla convinzione che stia per trovare la soluzione finale per la sua Teoria logica delle descrizioni, tra l’altro terribilmente simile a quella delle Idee del suo antenato greco Platone, per il quale non a caso prova una grande simpatia filosofica.
Ebbene, alla fine di quella lezione, un giovane spavaldo, più nei modi che nelle intenzioni, uno con un’espressione da mezzo pazzo, gli si avvicina e gli confessa candidamente che la sua Teoria delle descrizioni, come d’altra parte l’intera Logica, non è altro che un qualcosa di normativo, una invenzione particolare, che ha certamente la sua utilità, ma che non ha nulla di oggettuale, nel senso di assoluto: insomma, gli dice aristotelicamente che non ci sono idee platoniche nella logica, così come non ve ne erano nel mondo iperuranio del suo antenato ateniese. Quel giovane mezzo pazzo – che studierà ingegneria aerospaziale per poi scegliere di fare il maestro elementare, che scriverà un trattato di logica, per poi dire che la verità non può essere enunciata con la ragione ma solo ascoltata con l’anima – si chiama Ludwig Wittgenstein.
Russell, mentre si porta la pipa alla bocca, come fa tutte le volte che si trova davanti a qualcosa di tremendamente interessante, ascolta incuriosito quel giovane, e per nulla adirato, nonostante cominci ad intravedere in quelle obiezioni la possibile fine del suo sogno logico. Dopo le parole crudamente veritiere proferite dal suo giovane studente, Russell rimane per un momento in un assorto silenzio, per poi dirgli che rifletterà seriamente su quelle sue osservazioni.
Qualche anno dopo, considerate le difficoltà del giovane Wittgenstein nel trovare un editore disposto a pubblicargli la sua opera prima, troppo strana quanto il suo stesso autore, Russell decide di scriverne la prefazione, permettendo, così, al suo ex allievo di farla conoscere al mondo dei filosofi, e dando al contempo, considerato il grande valore logico insito in quell’opera, un contributo decisivo alla Filosofia stessa, nonché all’educazione dei giovani in merito alla necessità di essere onesti intellettualmente nell’esercizio della Conoscenza, momento imprescindibile per chi vuole essere un vero filosofo, ovvero un autentico uomo.
I miei due aneddoti, un po’ romanzati, sono ciò che di più caro potessi regalarvi in vista della mia prima lezione di storia della filosofia. Spero che di questi due aneddoti custodiate l’intrinseco valore filosofico, storico ed umano, come si fa con un tesoro inestimabile.