Utopia

La Repubblica di Platone non è un’utopia

La Repubblica di Platone nella mia filosofia.

Nella mia filosofia la Repubblica di Platone, alla stregua di qualunque altra forma sociale, in quanto atto creativo dell’uomo, non è e non può essere considerata una mera utopia.
Solo confondendo l’ovvia influenza che ogni stato delle cose ha sulle scelte umane con quella ambigua idea evoluzionistica della storia – che finisce col ricondurre l’agire dell’individuo ad una necessaria consequenzialità tra il presente ed il passato, come se ogni sua azione rappresentasse solo un anello di una ineludibile catena di eventi – si può arrivare a considerare impossibile una forma di convivenza che tagli di netto con ciò che è e ciò che è stato. D’altra parte, il solo fatto di aver concepito una forma sociale del genere dimostra quanto, anche in virtù dei disequilibri e delle disarmonie sperimentati storicamente, l’uomo si ritenga in grado di fondare una convivenza basata su dinamiche nuove e più conformi alla sua più autentica natura.
In realtà, dietro la convinzione dell’impossibilità assoluta di realizzare la Repubblica di Platone, si cela quel grande equivoco che la mia filosofia vuole estirpare dalla mente umana, generato dalla convinzione che l’uomo sarebbe assimilabile all’animale così come il suo agire improntato alla istintualità, con la conseguenza di concepirlo incapace di poter creare liberamente, secondo un rapporto dialettico tra sé e le proprie determinazioni storiche, alle quali paradossalmente sarebbe subordinato dopo averle autonomamente concretate.
E’ proprio su questo grossolano equivoco che nella Logica, sin dai suoi albori, ha preso corpo quel concetto di “futuro necessario” (finanche quando se ne voleva difendere la contingenza!), ovverosia l’idea che ogni evento da noi vissuto, proprio perché già accaduto, rappresentasse a priori l’unica possibilità logicamente plausibile e verificabile tra le tante che si erano presentate, con la contraddittoria conseguenza di annullare sul nascere l’idea stessa di possibilità proprio in quanto possibilità, e con essa la libertà umana. Un circolo vizioso di tipo psicologico (più che logico) che non a caso, dopo due millenni circa, non un logicista, ma un indagatore dell’animo umano, come il grande filosofo esistenzialista Kierkegaard, ricondurrà alla sua natura virtuosa, concependo l’infinita possibilità di scelta (la libertà) come caratterizzante l’essere umano stesso, tanto caratterizzante da indurre il filosofo danese ad avvertirla come fondante quella disperazione interiore che spinge poi l’uomo a porsi in rapporto con l’Assoluto, con l’autentica Verità.

La Repubblica di Platone è un dovere.

L’idea di realizzare la Repubblica di Platone, dunque, non rappresenta assolutamente una utopia; essa si paleserebbe come tale solo nella misura in cui si pretendesse di adattarla d’un colpo e con la forza ad un popolo storicamente determinato, costituito, nella stragrande maggioranza, da individui non preparati ad accogliere il concetto fondamentale che ne è alla base, ovvero quello che il Bene di un uomo, e della comunità di cui fa parte, coincide con la Conoscenza. Si commetterebbe un errore logico e insieme psicologico nel tentare di imporre ad un qualunque popolo della Terra un criterio di vita, sebbene il più Nobile e Giusto, nel quale non potrebbe riconoscersi in alcun modo, che troverebbe del tutto estraneo alla propria indole sociale, sviato com’è da una millenaria visione del mondo che è l’esatto opposto di quella che, secondo l’ideale platonico, dovrebbe appartenergli per natura. Occorrono, pertanto, disciplina mentale ed un forte esercizio di analisi e di autoanalisi affinché un individuo riesca a comprendere ciò che è più conforme alla propria natura, incanalando e sublimando nel Bene quell’energia che disperde nel tentativo di superare le proprie inevitabili frustrazioni al cospetto di una società che lo allontana da sé, che lo aliena da ciò che egli veramente è e può manifestare di essere.
Un errore assimilabile a quello da me menzionato è stato il tentativo di imporre una società comunista, un esperimento che, non a caso, ha avuto un epilogo tragico ovunque sia stato adottato. E’ vero che, come sottolinea Marx, l’ideologia comunista rappresenta una conseguenza del capitalismo, una risposta, per certi versi inevitabile, a quelle sue contraddizioni immanenti, prerogative delle dinamiche stesse del mercato; è vero, dunque, che esiste un nesso di causa-effetto tra la società borghese e la rivoluzione socialista, tanto da poter persino pensare ad una evoluzione quasi automatica della prima nella seconda, tuttavia rimane il fatto che si è cercato di rendere attore protagonista un tipo di cittadino ancora immaturo rispetto a quella capacità di autodeterminazione necessaria in un mondo improntato alla visione marxista. E questa impreparazione, figlia di quella millenaria abitudine ad una opposta visione del mondo sociale, ha inevitabilmente portato al fallimento di quella transizione che appariva tanto ineludibile da indurre a pensare che fosse persino l’espressione di leggi matematiche. La verità è che, in un’epoca votata all’evoluzionismo, suggestionata dalle intuizioni di Charles Darwin, si è tenuto molto poco conto di tale elemento psicologico rispetto a quello socio-economico, quando è palese che il primo, sebbene determinato in notevole parte dal secondo, si è radicato nell’uomo in maniera così profonda che non può bastare una crisi di sistema perché ci si convinca della necessità di una concezione sociale opposta a quella consolidatasi, a maggior ragione quando questo nuovo mondo presuppone, come dicevo all’inizio, una autonomia di pensiero del tutto estranea ad un individuo abituato alla mera dipendenza. Lo stesso Platone, nella smania di mettere in pratica le proprie concezioni, cadde nell’errore di voler porre dall’alto ciò che deve primariamente essere divulgato nelle scuole attraverso un intenso e profondo studio della Filosofia, ovvero dell’uomo stesso, sebbene il grande ateniese fosse stato spinto verso quella forzatura più da un desiderio altrui che da una propria convinzione, tentando di realizzare la sua Idea di Stato nella città di Siracusa, con l’inevitabile fallimento dell’operazione. La volontà di mettere in pratica lo Stato Ideale, dunque, ha certamente un senso, ma a patto che essa si manifesti in uomini che abbiano compreso il significato più Alto del loro vivere. E coloro che intendessero dare del pazzo a chiunque crede in questa impresa, è bene che sappiano che finirebbero per affibbiare quell’epiteto anche e soprattutto al grande Platone, considerato che di quell’idea di Stato egli fu l’artefice. E l’offesa nei confronti del grande filosofo, nel rimarcare la presunta assurdità della sua concezione, sarebbe invero ancor più grave se si considerasse che l’uomo, nel corso della sua storia, è stato bellamente capace di mettere in pratica l’ideale politico più abominevole che potesse mai concepire, ovvero il nazismo, portandolo pure avanti per un buon numero di decenni. In tal caso, infatti, l’intelletto e lo spirito del discepolo di Socrate verrebbero considerati inferiori a quelli di individui dalla natura enormemente perversa ed abominevole; in sostanza il nome di Platone verrebbe posto al di sotto di quello di Adolf Hitler. E se si obiettasse che l’uomo, tra le due estreme tendenze del Bene e del male, sembra mostrare la capacità di realizzare solo la seconda, si arrecherebbe grave offesa non solo a Platone ma all’intero genere umano. E si commetterebbe innanzitutto oltraggio verso Dio, della cui Volontà l’uomo rappresenta la massima espressione. Realizzare la Repubblica di Platone, dunque, non è solo un semplice diritto che gli uomini possono intendere di esercitare, ma rappresenta soprattutto un loro dovere di fronte a Dio e al Mondo, ovvero rispetto allo loro stessa Natura.

Obiezioni serie alla “utopia” di Platone.

Si potrebbero muovere, invero, obiezioni più serie all’idea platonica che la Ragione rappresenti il fine ultimo della natura umana, e che conseguentemente la vita più adatta all’indole di un uomo, in quanto essere cosciente, sia quella improntata alla Ricerca, come espresso dallo stesso Platone in quel suo motto socratico che recita: «Una vita senza ricerca non è degna per l’uomo di essere vissuta». La prima, e più immediata, di queste obiezioni consisterebbe nel sottolineare come non sia affatto scontato che la razionalità rappresenti l’elemento primigenio della natura umana, passando in rassegna millenni di storia che sembrerebbero testimoniare proprio l’opposto, o quantomeno rivelare una sorta di compromesso tra l’istintualità e la razionalità, con la prima che appare oltretutto coincidere con l’essere uomini e la seconda come una risposta necessaria, una compensazione rispetto alla piena del fiume degli istinti. In tale ottica, peraltro, la Ragione neanche esisterebbe di per sé, palesandosi semplicemente come il risultato di un equilibrio dinamico. Ci troveremmo di fronte, in termini filosofici, ad un a priori (l’istintualità) e ad un a posteriori (la razionalità). A supporto di questa ipotesi sembrerebbero esserci i fondamenti della Psicanalisi, attraverso i quali Sigmund Freud, attribuendo il caratterizzarsi degli uomini, nelle loro manifestazioni apparentemente più normali come nelle perversioni più abominevoli, ad un delicatissimo equilibrio tra inconscio, io e morale, riconduce l’intera civiltà ad un meccanismo di razionalizzazione-compensazione degli istinti primari nel loro adattarsi alle varie fasi dell’evoluzione sociale e a quelle dello sviluppo psichico del singolo individuo. Un tale meccanismo appare in misura ancora maggiore nella variante psicanalitica offerta da Gustav Jung, che vede nell’inconscio il terreno infinito in cui sarebbero impiantati gli eterni archetipi sui quali l’uomo inconsapevolmente modellerebbe la costruzione del proprio “sé” e della società. Questa junghiana eternizzazione-assolutizzazione dell’inconscio accentua ancor di più quel ruolo della ragione come elemento compensatorio, riducendola addirittura a pura passività nel suo rappresentare un’immagine speculare delle dinamiche che si svolgono nell’interiorità. Se per Freud l’io arricchisce l’inconscio, per Jung l’inconscio nutre l’io. Non a caso la psicanalisi di Jung si traduce nella teoria dei “Tipi psicologici”, secondo la quale le dinamiche inconsce si oggettivano nei due fondamentali caratteri psichici dell’introversione e dell’estroversione, dalle cui articolazioni nascono i tipi introverso ed estroverso insieme ai loro sottotipi, con ciascun individuo che così viene a priori modellato e caratterizzato dal di dentro, ovvero dal profondo. E’ anche vero che Jung, proprio perché fonda la sua teoria sull’esistenza di archetipi (modelli) sostanzialmente invariabili, si avvicina a concezioni filosofico-razionalistiche, come quelle di Leibnitz e Kant, che vedono un certo “innatismo” nel pensare dell’uomo, facendo così apparire la sua psicanalisi come l’affermazione di una metafisica del pensiero. Così come è vero che, secondo il pensiero junghiano, quel percorso di sviluppo del “sé” implica che l’individuo possa rappresentare il superamento di quella sorta di genetica psichica da cui pure prende forma, attraverso il riconoscimento di tale eterna matrice universale e la conseguente capacità di ricomporne autonomamente i tasselli, alla stregua di come fa chi si cimenti nella ricostruzione dell’immagine di un puzzle. Resta comunque il fatto che la Ragione, in tutte queste concezioni, appare solo un compromesso, un derivato, un equilibrio dinamico all’interno di una istintualità dominante; nella migliore delle ipotesi, per usare un termine caro a Freud, un atto di sublimazione.
Un’altra obiezione, questa volta più di natura sociologica che psicologica, dunque maggiormente onnicomprensiva dell’agire e del pensare umano, peraltro coincidente con la concezione marxista della storia, potrebbe fare leva sul fatto di presupporre che ogni ideale, compreso quello di Platone, rappresenti solo una astratta sintesi mentale di complesse dinamiche materiali, facendo così derivare qualsivoglia concezione che l’uomo ha della società, del mondo e di se stesso da quei rapporti che egli instaura con le cose, interfacciandosi col complesso sociale, da un lato, e con l’ambiente naturale, dall’altro; rapporti così automatizzati da indurlo a sovrastrutturare, a concettualizzare quelle dinamiche produttive in cui è immerso, fino ad elevarle a legge di natura. La differenza sostanziale – e a vantaggio di Marx rispetto a Platone – tra il materialismo storico e la concezione del mondo insita ne La Repubblica, consisterebbe nel fatto che, per certi versi, il marxismo, svelando l’arcano economico che si cela dietro le idee che gli uomini si fanno della società e di se stessi, spiegherebbe anche la vera matrice concettuale insita nell’idea sociale prospettata da Platone, individuandone sia le ragioni materiali sia quegli stessi limiti d’applicazione che vi sono stati ravvisati. In sostanza Marx ingloberebbe Platone alla stregua di come lo Spirito di Hegel ingloba e giustifica ogni agire umano.
Sono evidenti gli elementi evoluzionistici e meccanicistici insiti in questa idea del divenire del pensiero, ridotto a mera espressione di dinamiche sociali alle quali sarebbe improntato, incatenando inevitabilmente la libertà d’espressione e dell’agire umano a schemi socialmente precostituitisi, riducendo, quasi a mera necessità, la libertà stessa. Anche qui, come nel caso della Psicoanalisi, sebbene questa volta sul piano sociologico, si vede una ragione rappresentare non tanto un qualcosa di autenticamente autonomo quanto piuttosto un atto di compensazione dinamica, di compromesso tra ciò che l’uomo sarebbe per natura, un essere legato indissolubilmente a bisogni biologici, e l’espressione degli stessi nel loro manifestarsi e nel reciproco rapportarsi. Come si vede non ci si è poi così tanto allontanati da Hobbes, si è solo resa la questione più complessa, più evoluzionistica e persino più circolare. Non a caso è ancora ed ampiamente aperto il dibattito sulla reale natura del marxismo, ovvero se esso rappresenti un affrancarsi dalla concezione dialettica hegeliana, una prometeica liberazione dell’individuo dall’Olimpo dello spirito hegeliano attraverso il fuoco della consapevolezza del proprio ruolo nel mondo, o invece una nuova catena dialettica sotto mentite spoglie. Le orribili perversioni in cui i vari tentativi di realizzare la società comunista si sono risolti, testimonierebbero in quest’ultimo senso.

L’utopia platonica resiste.

La verità – e qui si viene al fulcro della questione – è che bisogna partire da un presupposto del tutto antitetico rispetto a quello abitualmente prospettato nel rapportarsi dell’uomo alla Natura, o, per dirla in termini filosofici, dell’uomo all’Essere: il presupposto secondo cui l’uomo è emerso, nella lunga catena degli eventi dell’Universo, come un “salto quantico”, mutuando un’espressione dalla fisica. Non gli istinti, che pur gli appartengono, ma proprio la Ragione, ovvero la coscienza, rappresenta la base del suo rapportarsi con le cose e con i suoi simili. Quella compensazione dinamica, che pure ha una sua veridicità, è solo la conseguenza della predisposizione dell’uomo al ragionare, al discernere, e non la causa necessitante dell’ideare. Come mirabilmente intuito da Kant, sulla scia di Cartesio, l’io rappresenta un qualcosa di irriducibile, una “cosa in sé” che non può essere oggettivata in nessun modo, nel senso di poter essere prospettata e colta nella sua essenza all’interno dei rapporti tra l’uomo e le cose. Quella irriducibile natura è negli uomini come essenza ed è alla base dei rapporti in cui egli si manifesta interfacciandosi con le cose e con gli altri, e non è mai uno degli elementi di quel rapportarsi o il rapportarsi stesso; per dirla alla Kierkegaard, essa è quel “rapporto che si rapporta a se stesso”.
L’uomo, in sostanza, è un essere primigenio, pur essendo cronologicamente l’ultimo anello della catena evolutiva; la Ragione rappresenta un inizio, un big bang, proprio quel “salto quantico” ricordato prima. Partendo da questo presupposto, senza il quale occuparsi di Platone, e non solo della sua concezione statale, rappresenterebbe un esercizio del tutto fatuo, appare evidente come, al netto dei suoi inevitabili limiti storici e materiali, l’Idea platonica della società sia inevitabilmente superiore a qualsivoglia concezione materialistica della politica, imperniata com’è sull’autonomia, sul primato e sulla primigeneità della Ragione e sulla conseguente irriducibilità della libertà umana. Paradossalmente, per quanto anacronistiche, banali e a volte persino perverse ci possano apparire le istituzioni e le leggi prospettate da Platone nel suo Stato Ideale, rimane inalterato il senso più vero e profondo su cui esse si fondano: l’uomo come Ragione e la Ragione come uomo. E si badi bene che, in quest’ultima espressione, non v’è alcunché di hegeliano, trattandosi non di un rapporto circolare, ma di una assoluta identificazione. Il comunismo di Platone, così, pur nella sua ingenuità, è superiore a quello di Marx. Esso rappresenta inevitabilmente un classico senza tempo, proprio perché si basa su una idea metatemporale e metaspaziale: l’ontologia del Pensiero e la sua identificazione con l’Essere e l’essere uomo.
Anche il nemico filosofico per eccellenza di Platone, ovvero Friedrich Nietzsche, colui che obietta col martello a tutto l’armamentario razionalistico di Socrate, che assurge a massima espressione proprio nel suo discepolo, finisce col ricondurre l’uomo, contro ogni evoluzionismo e vuoto meccanicismo, alla irriducibilità della Volontà, unico vero in sé capace di essere ad un tempo fuori dalle cose e nelle cose stesse. Un concetto questo che, spesse volte equivocato, ha indotto a porre il filosofo della Volontà di Potenza o come ispiratore del massimo arbitrio (nazista) o come epigono del primato della Necessità, manifestazione filosofica di una presunta incapacità inconscia di affrancarsi da vecchi schemi metafisici.
La Repubblica di Platone, dunque, prendendo corpo dalla prometeica identificazione dell’uomo col fuoco della Ragione, è realizzabile proprio in virtù del suo affrancarsi, in nuce, da ogni catena che non sia quella del Puro Pensiero, che rappresenta la Vera Necessità di ogni uomo. E uno Stato in cui il bene delle istituzioni, il loro fine ultimo coincida con quello di ogni singolo uomo, dove la organicità della società e la libertà di ciascuno rimandano l’una all’altra, non può essere sentito e vissuto dagli uomini come una costrizione, ma, al contrario, come la massima esaltazione del proprio essere, della propria natura. La socialità, in sostanza, il vivere in comune, verrebbe percepita come la massima espressione di se stessi, e dunque come un sentire gioioso.

Differenze tra lo Stato Ideale e la società contemporanea.

Guardiamo, invece, alla società contemporanea, a quella palese insofferenza di ciascun individuo rispetto a qualsivoglia sistema di regole, all’idea stessa di far parte di una organicità. Tutto è improntato alla disgregazione, in nome di un individualismo che, lungi dal rappresentare la manifestazione della natura umana, finisce con l’omologare i singoli individui ad un paradossale “modello di individuo” che annienta ogni autentica volontà individuale; e la annienta sul nascere in quanto quell’individualismo è il frutto di quel disaggregante tutti contro tutti, determinato dalla necessità capitalistica di portare gli uomini a competere gli uni contro gli altri. E questo paradosso, ovvero di una organizzazione sociale imperniata sull’opposto istinto della disgregazione, è la conseguenza di una società basata sull’idea antitetica a quella su cui Platone fonda la propria visione dello Stato: l’idea secondo cui non la Ragione, non il Sapere, non la Ricerca, ma il mero istinto biologico della sopraffazione rappresenta il fine del vivere sociale.
E così, nella società contemporanea, ci sono certamente tanti individualismi, ma si tratta di individualismi assimilabili all’animalità, con restrizioni e limiti biologici (meccanicistici) imposti da una seconda natura, quella sociale. Tuttavia, a differenza degli animali, e proprio perché la propria Natura rivendica inconsciamente l’opposto, gli uomini vivono con grande sofferenza queste limitazioni biologiche, arrivando ad ammalarsi gradualmente e ad entrare nel vortice del nichilismo, di un desiderio di disgregazione sia del corpo sociale che del proprio. Quello che vediamo, in sostanza, è un mega circolo vizioso inerente una società i cui principi aggreganti posano sull’istinto della disgregazione di qualsivoglia ordine sociale, nonché sull’annichilimento del desiderio stesso di porsene uno, e questo perché non il Fine per cui l’uomo è nato viene perseguito ma il mezzo che si dovrebbe usare per raggiungerlo. Un rovesciamento già messo ampiamente in evidenza, con tutti i limiti ontologici ricordati sopra, da Karl Marx.
Persino quegli elementi residuali attorno ai quali gruppi di individui cercano di associarsi si palesano in realtà disgreganti e persino distruttivi, come la droga, l’alcool e la pornografia. E questo perché il perseguire di queste chimere è solo la perversa manifestazione di un impedimento psicologico, un perverso adattamento sociale ad una situazione insostenibile, alla stregua di quelle nevrosi individuali messe in evidenza dall’analisi freudiana.
Bisogna riabituare l’uomo a camminare sui propri piedi, ma partendo da quell’elemento irriducibile che è la Ragione, ovvero l’io, ovvero il suo autentico essere. Fino a quando non si comprenderà questo, ogni tentativo di soluzione o rimedio, come ad esempio il comunismo, è destinato inesorabilmente a fallire, perché non affrancato ancora dall’idea profondamente errata di una coincidenza assoluta tra l’uomo e la Natura da cui proviene. In questo senso, il comunismo ha rappresentato un meccanicismo in sostituzione di un altro meccanicismo. E questo varrebbe per ogni concezione socio-politica incapace di liberarsi da quell’errore ontologico di fondo.
George Orwell ha ben messo in evidenza, nella sua grandiosa opera intitolata “1984”, meglio conosciuta come il romanzo de “Il Grande Fratello”, il pericolo imminente del consolidarsi di una struttura sociale che meccanicamente perpetui se stessa, dove il potere, sfrondato di ogni attributo materiale in cui prima si alienava, a cominciare dal danaro, si presenti nella sua purezza, con la mera finalità di autorigenerarsi, alla stregua di una specie biologica il cui unico interesse è il perpetuarsi indeterminatamente ed inconsapevolmente nel tempo e nello spazio, indipendentemente dalla volontà degli individui in cui si manifesta. In sostanza, l’uomo rischia, dopo essere un giorno emerso, attraverso quel salto quantico, dalla specie di cui pure faceva e fa parte, affrancandosene come Coscienza, di ritornare al punto di partenza, con la differenza che questa volta la specie a cui potrebbe dover rispondere con istinto da animale sarebbe di tipo sociale, ovvero di un grado più alto. Finché la società umana sarà improntata all’istintualità e non alla Ragione, questo pericolo dovrà essere visto come un destino.
Si potrebbe anche qui muovere un’obiezione, questa volta tanto forte e decisiva da poter essere considerata come la massima obiezione possibile: la Repubblica di Platone rappresenterebbe qualcosa di irrealizzabile proprio perché in essa verrebbe inibito ciò che di più ineludibile esisterebbe nell’uomo, ovvero l’istinto, quando invece in tutte le società storicamente determinatesi, per quanto in maniera quasi sempre impropria, questa essenzialità biologica non è stata inibita se non parzialmente. E non solo; a riprova della presunta primigeneità degli istinti ci sarebbe il fatto che quando si è cercato di tenerli a bada oltre un certo limite, si sono manifestate grandi perversioni, come quelle nevrosi che colpiscono singoli individui repressi. In realtà, le cose stanno all’opposto, perché è proprio nella società ideale che gli istinti verrebbero fatti esprimere nella loro essenzialità, mentre nei sistemi sociali storicamente sviluppatisi, essi vengono controllati e deviati per ragioni di potere. Basta prendere come esempio i due istinti più ineludibili dell’uomo, quello della fame e quello sessuale. Partiamo da quello della fame. E’ vero o non è vero che l’istinto della fame, tanto ineludibile da essere legato alla stessa sopravvivenza della specie umana, è stato sempre usato dal potere come una leva per controllare e deviare le scelte dei popoli attraverso uno scientifico depauperamento delle masse, restringendo al minimo gli ambiti entro cui esse potessero soddisfarlo, e tutto questo allo scopo di renderle facilmente ricattabili, offrendo come briciole di salvezza ciò che invece spetterebbe loro di diritto, in cambio di sostegno politico e sociale?! Chi non ha sentito affermare da eminenti scienziati il fatto che, grazie alle biotecnologie agricole, potrebbe essere sfamata una popolazione due volte più grande di quella che oggi soffre la fame solo se si decidesse di promuovere piani di riconversione agricola di territori inariditi dall’uomo o dalla natura?! Perché non si adottano queste misure incontestabilmente possibili?! La risposta a queste domande è unica ed è già stata data sopra, come già è insita nel modo in cui si sta evolvendo la società mondiale.
Prendiamo, adesso, come secondo esempio, l’istinto della sessualità. Nelle società storiche il sesso è stato usato, per la sua natura di regolare l’equilibrio energetico all’interno del corpo e della psiche, o in senso inibitorio o come atto di sfogo, a secondo della natura del corpo sociale da suggestionare, e mai indotto ad incanalarsi secondo vie naturali. Orwell, brillantemente e con grandi capacità suggestive, espone tale questione nell’opera già menzionata. Il vertice della specie socing, l’anonima ed indeterminabile classe al potere, asseconda gli istinti sessuali del popolo, ormai ridotto a mera passività e povertà, inducendolo ad una rozza pornografia, mentre, all’opposto, inibisce ferocemente la libido nei funzionari del partito, rendendo isteriche le loro menti, fino a portarle all’ossessione, con lo scopo di deviare quel crescente fiume in piena di energie psichiche contro fantomatici nemici interni ed esterni, evitando così il sorgere di qualunque consapevolezza autenticamente critica, foriera di possibili scenari rivoluzionari – bisogna essere, infatti, più sottili e feroci nel controllare coloro che si occupano direttamente di attuare la falsa propaganda del regime, fino a ipnotizzare le loro menti -.
Nella Repubblica di Platone, invece, questi due istinti primordiali, come qualunque altro, verrebbero soddisfatti per quello che semplicemente sono, secondo la loro più intima natura. L’istinto della fame sarebbe soddisfatto come semplice e pura necessità di sfamarsi; e alla stessa stregua l’istinto sessuale, ovvero come semplice soddisfacimento del desiderio libidico in sé, con i tempi e i modi dettati dalla natura intrinseca dell’uomo, senza forme di adattamento deviate, ma solo assecondando quelle legate inevitabilmente al progresso tecnologico, con le relative strutture sociali e i conseguenti diversi approcci di ciascun individuo verso l’altro, e comunque sempre al servizio di se stessi, ovvero per la propria utilità e libertà d’espressione.
E quello che vale per gli istinti, anzi rimanendo sostanzialmente nel loro ambito, vale per tutte quelle determinazioni di tipo morale ed etico, che si possono riassumere sotto la voce di costumi. Nelle società storicamente determinatesi, noi vediamo il sorgere, l’evolversi – e talvolta lo sparire – di categorie di pensiero che caratterizzano, in un senso positivo o negativo, intere epoche: il maschilismo, il femminismo, il nazionalismo, il cosmopolitismo, il populismo, e, più in generale, l’affermazione di tante parziali visioni della vita, espresse da gruppi dominanti, con l’inevitabile svilupparsi di una malcelata insofferenza o, peggio ancora, di forme di razzismo verso quelle di gruppi minoritari o subalterni. In sostanza, si verifica l’affermarsi di particolari concezioni sociali e politiche con la conseguente fittizia divisione in ciò che sarebbe giusto e ciò che sarebbe sbagliato, con l’occultamento delle vere ragioni sociali e psicologiche alla base di quelle stesse forme di pensiero. E l’evoluzione sociale, con tutte le sue categorie etiche e morali, si identifica proprio con quell’occultamento, è storia di quell’occultamento stesso e della deviazione degli istinti, prima innalzati ad assolutezza, e poi controllati nel loro manifestarsi; così come avviene, sotto l’egida del Super-io, nella psiche di un nevrotico.
Esemplare quella concezione della “banalità del male” che Hanna Arendt espone nell’omonimo libro, suggestionatale dalle testimonianze di alcuni carnefici durante uno dei tanti processi agli ex gerarchi nazisti. Per l’autrice era stato agghiacciante l’aver individuato solo futilità nelle ragioni alla base di azioni tanto malvage. Alla coscienza della filosofa quegli orrori si rivelavano tanto più terrificanti quanto più le si palesava il fatto che in realtà essi fossero stati perpetrati senza alcuna ragione apparente. Ed è proprio questo che si è verificato nelle società che si sono finora sviluppate storicamente e materialmente, tanto riguardo alle cose di poco conto quanto a quelle più profonde. Soffermiamoci per un attimo, rimanendo in tema, su quei tanti giovani che oggi abbracciano il nazismo e l’antisemitismo. In realtà essi, come appare evidente nell’ascoltarli, non sanno assolutamente nulla delle ragioni storiche che sono alla base dell’uno come dell’altro, al punto che sarebbe finanche superfluo chiedere loro conto di quelle scelte. In parole povere, anche la banalità del male, in tutte le forme con cui si manifesta, come l’assoluta inconsistenza valoriale, intellettuale e persino fattuale di cui è intrisa, ha come suo fondamento quel necessario adattamento dinamico degli istinti deviati dal loro corso naturale per ragioni di sopraffazione. Capita, in sostanza, come conseguenze incontrollabili, che residui di quegli adattamenti si cristallizzino in mode orribili e senza un senso apparente.

La Repubblica di Platone coincide con la Ragione.

Alla luce di quanto evidenziato sopra, non deve sorprendere la circostanza che, per quanto le Costituzioni dei singoli paesi recepiscano principi sociali e statali che sembrano provenire, nella loro sostanza, da quello scopo universale che è proprio dell’uomo, nei fatti le società deviino costantemente da quelli, andando nel senso opposto. Ciò è il risultato di un conflitto, in seno alla coscienza dell’uomo, tra una Natura Razionale, che vorrebbe affermare se stessa, e la costante deviazione dal suo corso ideale, con la conseguenza di perdersi nei complessi meandri di una società estranea alla sua essenza, finendo per assecondare quella animalità che gli è più immediata. In tale ottica va inquadrata la dilagante crescita ed affermazione della criminalità organizzata, la quale finisce paradossalmente col rappresentare l’elemento maggiormente conforme a quella deviata forma di rapporti sociali fondata sulla sopraffazione. Ciò che vale per gli esempi appena messi in evidenza, come quello classico del nazismo, vale per tutte le forme d’espressione culturale, da quelle gradevoli a quelle orribili, da quelle popolane a quelle elitarie. Non che nella Repubblica di Platone non ci sarebbero categorie ideali e sociali, in sostanza i cosiddetti costumi, ma questi rappresenterebbero semplicemente il normale, e non deviato, adattamento sociale dei cittadini al progresso tecnologico e alle conseguenti diverse forme di convivenza che ne scaturirebbero. Ad esempio, a scopo di chiarimento, nella Repubblica di Platone l’omosessualità non rappresenterebbe né un bene né un male, ma solo un normale approccio alla vita, che potrebbe persino divenire la forma sessuale preminente in un’epoca in cui la procreazione diventasse del tutto artificiale. La stessa cosa nei rapporti di forza tra donne e uomini; nessuna preclusione di partenza per un ruolo della donna assolutamente paritario al cospetto degli uomini. Emblematico, in tal senso, il fatto che la Repubblica di Platone, già nella sua forma originaria, come cioè prospettata nell’omonima opera del filosofo, mostri di privilegiare una sostanziale parità nei rapporti tra i due sessi.
E’ assolutamente ovvio che anche nelle forme sociali che si sviluppano storicamente, questi tipi di emancipazione si vadano affermando, ma è pur sempre vero, come messo in evidenza prima, che questi scenari si evolvono sempre secondo adattamenti sociali di una perversione immanente, che vede costantemente la sopraffazione di un gruppo di potere sul resto. E così, non solo assistiamo a guerre ideologiche di ogni tipo, frutto di un mero adattamento dinamico e non di una autentica consapevolezza rispetto alle idee che si sbandierano, tra le varie necessità reali che vanno affermandosi, ma anche allo svilimento di quegli stessi valori, che vengono vissuti perversamente come mode e non come semplici espressioni di vita sociale. In sostanza, anche quando queste idee sono suggestionate da un profondo senso dell’umano ed improntate ad una volontà di sana socialità, proprio nello schematizzarsi come mode perdono la loro essenza più veritiera, quella di rappresentare solo ed unicamente dei sani adattamenti sociali, idonei allo sviluppo del singolo individuo e dello Stato. E tutte queste idealità, alla fine, si perdono in quel buco nero che inesorabilmente le attrae a sé; quel potere senza volto e meccanicistico che perpetua se stesso come specie.
Alla Volontà autentica che risiede nel profondo di ciascun uomo, ovvero quella del desiderio di conoscere il mondo, e dunque se stessi, si contrappone una volontà estranea – fredda e meccanica – che l’uomo ha partorito dentro di sé nella storpiatura di porre gli istinti alla base del proprio vivere, rendendola un mostro ingovernabile fino al punto di alienarvisi inconsapevolmente. Una volontà terribilmente estranea, e che assomiglia così tanto a quella di cui parla Schopenhauer, da indurre a pensare che il grande pessimista tedesco avesse già avvertito questo pericolo senza tuttavia saperlo cogliere nel terreno sociale da cui era nato, ovvero quello del potere politico, finendo così per innalzare quella volontà addirittura a volontà del mondo stesso, coincidente con quello.